La crisi ambientale incide anche sull’economia. Disuguaglianze e demografia le altre sfide da affrontare con urgenza.
- Il rapporto annuale Istat segnala una crescita debole dell’economia, rallentata anche da una fragilità sempre più marcata dei territori.
- La transizione ecologica avanza ma non è ancora sufficiente, e aumentano i divari sociali, territoriali, di genere.
- Siamo un paese fatto sempre più di anziani mentre i giovani hanno faticano a trovare opportunità: serve un patto generazionale.
Un paese che attraversa una profonda trasformazione sociale. Ambientalmente sempre più fragile e con disuguaglianze che pericolosamente si ampliano, anche a causa di una crescita economica che stenta. E che, in vista di una transizione ecologica, sociale, tecnologica, ha bisogno urgente di patto di solidarietà tra generazioni. È il quadro dipinto dal rapporto annuale 2025 dell’Istituto italiano di statistica (Istat) che mette al centro non solo i tradizionali indicatori economici, ma l’intreccio sempre più stretto tra benessere, ambiente e demografia. E in cui la crescita debole (+0,7 per cento nel 2024, meno di tanti altri paesi europei) e un recupero parziale dei salari reali si accompagnano a un quadro critico per la produttività e per la sostenibilità ambientale e sociale della crescita.
L’Istat certifica che la fragilità climatica impatta sull’economia
Il primo capitolo del rapporto, dedicato a Economia e ambiente, mette in evidenza tra le altre cose la vulnerabilità del sistema produttivo italiano rispetto ai rischi climatici. Secondo l’Istat, il 35 per cento dei comuni italiani è esposto ad almeno una tipologia di rischio naturale, e quasi un quinto del valore aggiunto nazionale (18,2 per cento) è generato in territori soggetti a pericoli ambientali rilevanti. L’Italia, tra il 1980 e il 2023, ha subito danni economici per 134 miliardi di euro a causa di eventi estremi, seconda solo alla Germania. Si tratta di costi enormi che colpiscono in modo sproporzionato alcune filiere economiche e territori già vulnerabili, come le aree interne e costiere, aggravando i divari territoriali e rallentando la transizione ecologica.
La sostenibilità ambientale, certifica l’Istat, resta un nodo cruciale. Rispetto al 2008, per esempio, l’Italia ha ridotto del 32 per cento le emissioni climalteranti e del 40 per cento il consumo materiale interno: questa è una buona notizia, ma la transizione energetica ora sta rallentando invece che decollare. La produzione di energia da fonti rinnovabili è triplicata fino a circa 130 TWh, ma resta inferiore rispetto ai principali partner europei (quasi 380 TWh in Germania). Le potenzialità di sviluppo ci sono, ma mancano investimenti strutturali e una strategia coerente di decarbonizzazione a livello locale. Inoltre, la frammentazione del tessuto produttivo e la scarsa diffusione dell’innovazione nelle piccole e medie imprese ostacolano l’adozione di pratiche green su larga scala. L’Istat sottolinea come la trasformazione del modello produttivo debba passare per innovazione, capitale umano e pianificazione territoriale, elementi ancora troppo deboli. Le imprese più giovani e digitalizzate mostrano già oggi migliori performance ambientali, ma rappresentano ancora una quota limitata del sistema economico nazionale.
L’Istat fotografa una società che invecchia e che si svuota
Il secondo capitolo del rapporto è un allarme demografico a tutto campo. L’Italia scende sotto i 59 milioni di abitanti, con appena 370mila nascite nel 2024, nuovo minimo storico. La popolazione invecchia, si concentra nelle città e nei comuni del centro-nord, mentre nelle aree interne e nei piccoli centri si svuota. Si riducono le famiglie numerose, aumentano quelle monopersonali (35 per cento) e le persone anziane che vivono da sole.
Nel frattempo, oltre 156mila cittadini italiani hanno lasciato il paese nel 2024, più della metà dei quali laureati. La cosiddetta “fuga dei cervelli” raggiunge un nuovo record e si somma a una persistente difficoltà nel trattenere e attrarre capitale umano. Il contributo migratorio è positivo ma non risolutivo: la popolazione residente straniera cresce, ma i nuovi ingressi non compensano il saldo naturale negativo.
Povertà, salute, accesso ai diritti: tante le disuguaglianze
Ad aumentare, invece, purtroppo sono le disuguaglianze. La povertà assoluta coinvolge 2,2 milioni di famiglie e 5,7 milioni di persone, tra cui 1,3 milioni di minori. Colpite soprattutto le famiglie numerose, quelle con almeno un componente straniero (dove l’incidenza supera il 35 per cento) e i residenti nel Mezzogiorno. Il tasso di occupazione cresce (62,2 per cento), ma l’Italia resta fanalino di coda in Europa, con forti divari territoriali e di genere. Il lavoro è spesso precario o sottopagato: un lavoratore su cinque ha un reddito insufficiente, e tra i contrattualizzati a termine la quota sale al 46 per cento.
E le disuguaglianze non sono solo economiche: incidono sulla salute, sull’accesso all’istruzione, sulla mobilità sociale e sulla qualità della vita. La speranza di vita in buona salute cala di 1,3 anni per le donne arrivando ad appena 56 anni (60 per gli uomini) mentre il 9,9 per cento della popolazione dichiara di aver rinunciato a prestazioni sanitarie, soprattutto per ragioni economiche o per liste d’attesa troppo lunghe. Cresce il ricorso al privato (per il 23,9 per cento della popolazione), a dimostrazione di un sistema sanitario pubblico in affanno. La condizione è ancora più critica per le persone con disabilità e per chi vive nelle aree svantaggiate, dove si sommano carenze infrastrutturali, sanitarie e di mobilità.
Le condizioni di svantaggio tendono ad accumularsi, creando veri e propri “cicli dell’esclusione” che colpiscono in particolare minori, giovani e famiglie monoreddito. L’Istat evidenzia come, in assenza di interventi redistributivi e investimenti sociali, le disuguaglianze rischiano di diventare strutturali, compromettendo coesione sociale e partecipazione democratica.
I giovani d’oggi: più istruiti, ma con meno opportunità
I capitoli terzo e quarto del rapporto offrono una riflessione ampia sul divario tra generazioni. I giovani sono più istruiti dei loro genitori, ma faticano a conquistare l’autonomia economica. L’ingresso nel mercato del lavoro è ritardato, spesso segnato da contratti precari o sotto-qualificati. Solo il 17,6 per cento dei figli di genitori con basso titolo di studio riesce a laurearsi, contro il 75 per cento di chi ha genitori laureati: la mobilità sociale si è fermata. Nel frattempo, le generazioni più anziane vivono più a lungo, ma ovviamente hanno bisogni crescenti, e l’invecchiamento della popolazione non è accompagnato da una ridefinizione dei servizi di cura e dei modelli familiari. Gli anziani che vivono soli sono oltre il 40 per cento tra gli over 75, spesso senza una rete di supporto adeguata. Lo squilibrio tra generazioni si riflette anche nell’economia: molte imprese non riescono a garantire ricambio generazionale e le nuove imprese giovanili, sebbene più innovative e sostenibili, faticano a scalare.
Per questo il rapporto Istat 2025 si chiude con una proposta implicita: servono politiche che integrino visione ambientale, sociale ed economica. La sfida non è solo crescere, ma farlo in modo equo, sostenibile e resiliente. Investire nei giovani, rafforzare l’istruzione, sostenere le famiglie e garantire servizi accessibili sono gli snodi decisivi per un nuovo patto generazionale. L’alternativa è un declino silenzioso, demograficamente inarrestabile e socialmente diseguale.
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