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Simona Baldelli racconta la storia di Alfonsina Strada, la “corridora” che nei primi del Novecento supera limiti e pregiudizi in sella alla bicicletta.
È una storia epica quella di Alfonsina Strada, densa di fatiche, sogni, miseria e soprattutto conquiste mai celebrate abbastanza. Simona Baldelli la ripercorre e incornicia in maniera sublime nel romanzo biografico Alfonsina e la strada (Sellerio), un libro in equilibrio tra verità e invenzione letteraria che va a ricostruire e cucire con amore i momenti salienti dell’esistenza di questa donna straordinaria, pioniera del ciclismo e non solo.
Quella di Alfonsina è una corsa verso l’emancipazione che inizia a fine Ottocento e arriva al suo culmine nel 1924, anno in cui “la corridora” partecipa al Giro d’Italia: senza squadra, senza soldi, senza validi mezzi tecnici, unica donna in un mondo a dire poco machista. Alfonsina non si arrende, pedala per più di tre mila seicento chilometri lungo la penisola realizzando un’impresa massacrante e inaudita, portandosi a casa la vittoria più grande: il riscatto sociale. Un traguardo importante per le donne di tutti i tempi che ha contribuito alla parificazione tra sport maschile e femminile, a cui oggi possiamo guardare con ammirazione più profonda grazie all’opera di Simona Baldelli.
Alfonsina Morini – questo il suo cognome da celibe – nasce nel 1891 a Castelfranco Emilia e trascorre la sua infanzia a Fossamarcia, non lontano da Bologna. Seconda di dieci fratelli, cresce tra zanzare e stenti in una famiglia di contadini, finché una notte di nascosto prende la bicicletta del padre e comincia a pedalare. Pedala e respira. Attraverso un gesto di disobbedienza inizia il suo cammino verso la realizzazione personale che procede sempre su due ruote e in salita, tra mille ostacoli.
Poco più che bambina lavora in sartoria, in pausa pranzo si allena e nel tempo libero va a vedere le corse. Comincia quindi a gareggiare e i suoi primi successi arrivano a Torino dove nel 1911 stabilisce il record mondiale di velocità femminile, raggiungendo i 37.192 chilometri orari. A Parigi “la regina della pedivella” – questo il suo soprannome – conquista il pubblico esibendosi nei velodromi. Qualche anno più tardi chiede di essere ammessa a importanti competizioni maschili: le sue imprese più celebri sono il Giro di Lombardia (1917 e 1918) e poi a trentatré anni il Giro d’Italia, un’esperienza che rimarrà nella storia. Dopo un momento felice, la fama di Alfonsina si spegne e per guadagnarsi da vivere è costretta a trasferirsi in Francia per lavorare nei circhi. Successivamente, con il suo secondo marito, apre una bottega di biciclette a Milano dove muore nel 1959.
La sfida portata avanti da Alfonsina non riguarda solo i limiti imposti dalla società ma anche quelli personali. Le cadute – fisiche e metaforiche – sono continue. Emblematica rimane quella avvenuta durante l’ottava tappa della corsa rosa in cui oltre a ferirsi si ritrova a terra con il manubrio rotto che sostituisce fortunosamente con un manico da scopa.
“Sono una ‘malata’ di sport – ci racconta Simona Baldelli – definirmi appassionata è dire poco. Lo sport mi prende testa e corpo perché credo sia la rappresentazione continua dell’essere umano che si confronta con i suoi limiti sia fisici che mentali, riuscendo spesso a superarli”. Eppure ciò che ha colpito maggiormente la scrittrice è la capacità immaginativa di Alfonsina: “Lei è nata senza alcun tipo di orizzonte: donna, povera, poco più che analfabeta, senza raccomandazioni o protezioni. Eppure è stata in grado di andare oltre questo perimetro disegnato dalla malasorte, rispondendo a un bisogno credo più del corpo che della testa.
A cavallo di una bicicletta tutto il corpo si è sentito felice e lei gli ha obbedito”. Sottolinea poi: “È molto facile scavalcare un limite quando si sa cosa andare a cercare oltre l’orizzonte ma questo non è il caso di Alfonsina Strada, perché in quella palude non c’era niente. Lei ha immaginato che si potesse andare in bicicletta, che si potessero fare gare, ha imparato lingue straniere pur avendo fatto solo due anni di scuola, è diventata una vedette internazionale, ha inventato un modo di stare in bici e persino un taglio di capelli prima di Coco Chanel, il taglio alla bebé! Certo, da donna era tutto mille volte più difficile ma lo sarebbe stato anche da uomo. Questo è l’aspetto che più mi affascina di lei e mi commuove “.
Alfonsina è coraggiosa, forte e caparbia ma attraverso il romanzo scritto da Baldelli ci addentriamo nel suo lato più sentimentale. Comprendiamo la solitudine e lo sconforto di una persona “semplice” che intraprende un grande e faticosissimo percorso verso la felicità, ostacolato da una sorte spesso avversa. Sentiamo la sua gioia quando si accende l’amore per Luigi Strada – l’uomo che sposandola le regala la speranza di un futuro migliore oltre a un cognome “magico” che segnerà per sempre il suo destino – e proviamo amarezza e rabbia vedendola piegata dagli eventi della vita, in particolare quando il marito finisce in manicomio.
Allora perché lo fate? Andare in bicicletta. Per quale motivo se la stanchezza è tanta e il guadagno è poco?
Perché noi femmine non siamo nate solo per prendere bastonate. E non siamo da meno di nessuno.
Nel racconto Alfonsina fa i conti con i fantasmi che emergono dal passato e che le appaiono davanti agli occhi. Assomigliano alle Sirene di Ulisse – eroe che ha di sicuro qualcosa in comune con la nostra campionessa – e rappresentano la coscienza che brucia e dice “fermati qui”, impedendole di liberarsi. Come rimarca l’autrice, questa forse è la prova più dura che Alfonsina riesce a superare, ovvero quella di andare oltre l’immagine di se stessa che la storia le ha consegnato, di inventarsi e trasformarsi seguendo la scia delle passioni. È questa l’eredità che ci consegna, la ragione per cui oggi le siamo grate e grati.
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