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L’ira e l’odio, come forme perverse che abitano le regioni buie dell’anima, si alimentano di una differenza di fondo che l’uomo molto spesso non conosce e tende a confondere tra loro i sentimenti.
Roberta De Monticelli, una delle nostre pensatrici più
profonde e originali, in “L’ordine del cuore. Etica e teoria del
sentire”, esplora le molteplici forme della nostra
affettività, riconducendole a quel centro informatore, a
quella dimensione originaria di ogni integrazione affettiva che
è “l’ordine del cuore”, inteso come feconda e partecipata
espressione del nostro personale “sentire” (sentimento), ovvero di
quella percezione di valori, positivi o negativi, delle cose
profondamente radicata nella nostra sensibilità
affettiva.
De Monticelli, in particolare, descrive con mirabile trasparenza la
diversa geografia etica ed esistenziale dell’ira e dell’odio,
rintracciandone la differenza originaria esattamente in questo:
l’ira è un’emozione, e per questo si alimenta
dell’immediatezza, della provvisorietà,
dell’intensità transitoria tipica delle emozioni, intese
come risposte, a situazioni interne o esterne, eccezionali o
impreviste; l’odio, di contro, si configura come un sentimento, per
cui rinvia allo strato propriamente personale della
sensibilità. L’odio, insieme all’amore, costituisce, in
negativo, il sentimento relazionale per eccellenza e, rispetto
all’ira, si presenta come disposizione durevole, fondata sulla
stabilità del sentire, mirata, in senso sostanziale e non
accidentale, a distruggere il cuore, il centro vitale
dell’odiato.
In questo contesto, l’indifferenza nei confronti dell’altro si
delinea come “l’ombra stessa dell’odio”: è la manifestazione
più devastante, più lacerante della relazione con
l’altro.
Leggiamo, a questo proposito, un passo della De Monticelli: “Questo
modo dell’ingiustizia senza neppure malevolenza, e a maggior
ragione senza odio, che è di gran lunga il più
comune, ha per base affettiva quella specifica deficienza del
sentire che è l’indifferenza, nel senso preciso di
un’incapacità di sentire quella che potremmo chiamare la
differenza assiologica di base fra il peso della vita di un’altra
persona e quello del mio piacere o del mio utile; il che poi
equivale, come vuole il senso ordinario del termine, alla
circostanza che l’altra persona “non conta niente” per me, o non
conta più di un qualunque oggetto d’uso”.
L’indifferenza comporta il disseccamento delle radici del cuore,
spogliato “del sentire”, un inaridirsi dei sentimenti, un buio
dell’anima così profondo, che l’altro finisce per apparirci
cosa tra le cose: incolore, scialbo, vuoto, privato di ogni
tensione etica, affettiva, esistenziale.
A questo proposito, Charles Péguy ha parole davvero superbe
e decisive, sulle quali vale la pena meditare: “C’è qualcosa
di peggio di avere un’anima cattiva e anche del farsi un’anima
cattiva: è avere un anima bell’e fatta. C’è qualcosa
di peggio di avere un’anima perversa: è avere un’anima di
tutti i giorni”.
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