Chiedimi se sono felice… al lavoro. I risultati dell’Osservatorio BenEssere Felicità 2023

L’Osservatorio BenEssere Felicità, che misura la salute psicofisica dei lavoratori italiani, registra un malessere trasversale alle generazioni.

  • Piu della metà degli occupati nati tra il 1997 e il 2012 sta pensando di cambiare lavoro, ma anche chi è a un passo dalla pensione sogna una nuova occupazione.
  • Questo emerge dall’Osservatorio BenEssere Felicità, condotto dall’associazione Ricerca Felicità.
  • Tutte le generazioni intervistate sono concordi: a non funzionare nel sistema lavorativo italiano sono soprattutto il riconoscimento dei meriti e il senso di appartenenza all’azienda, in decrescita rispetto allo scorso anno.

Nel sistema lavorativo italiano qualcosa non torna. Disincanto, grandi dimissioni, recessione dei talenti sono fenomeni che molti ritenevano una conseguenza fisiologica della pandemia che sarebbe rientrata non appena le cose fossero tornate alla normalità. E invece sembra non essere così: secondo il ministero del Lavoro, sono oltre 1,6 milioni le uscite volontarie registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22 per cento in più dell’anno precedente. Un trend confermato dall’Osservatorio BenEssere Felicità che, come suggerisce il nome, misura felicità e benessere dei lavoratori, sia nell’accezione aziendale sia in quella individuale e sociale.

I dati dell’Osservatorio BenEssere Felicità 2023

Secondo i primi dati del 2023, la crisi nel mondo del lavoro rischia di cronicizzarsi. La survey, effettuata per il terzo anno consecutivo dall’associazione Ricerca Felicità, ha coinvolto 1.106 persone occupate appartenenti a quattro tipologie (dipendenti, manager, imprenditori, liberi professionisti/partite Iva/piccoli imprenditori) e appartenenti alle quattro principali generazioni: baby boomer (nati tra il 1946 e il 1964), generazione X (nati tra il 1965 e il 1980), millennial (nati tra il 1980 e il 1996) e generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012).

I primi dati 2023 dell’Osservatorio BenEssere Felicità sono piuttosto allarmanti e rivelano un forte disincanto: quasi il 60 per cento degli occupati appartenenti alla generazione Z sta pensando di cambiare lavoro. “Sono giovani, è normale”, verrebbe da pensare. No, perché anche tra i loro potenziali genitori e nonni, i cosiddetti baby boomer, uno su quattro vorrebbe un’altra occupazione. Pur essendo, presumibilmente, a un passo dalla pensione. Nel 2022 la domanda “Stai pensando di cambiare lavoro a breve?” trovava una forte convinzione da parte della generazione Z (il 37,4 per cento), ma ancor più nei millennial (49 per cento), e nella generazione X (42,3 per cento). Dodici mesi dopo notiamo una crescita in tre fasce su quattro: la generazione Z si attesta sul 59,9 per cento, i millennial sul 52,6 per cento, i baby boomer sul 24,1 per cento.

Come conferma Sandro Formica, vicepresidente e direttore scientifico dell’Associazione Ricerca Felicità, “il grande campanello d’allarme dimostrato è rimasto inascoltato e ora ci troviamo in una situazione in cui tutte le generazioni si uniscono nel dimostrare che nel sistema lavorativo italiano qualcosa non stia funzionando”.

Il posto fisso non basta più: le aziende devono investire sul benessere

“È il tempo di agire: l’anno scorso eravamo ancora colpiti dagli effetti della pandemia, per questo i risultati della survey 2022 sono evidenze che in un certo senso potevamo giustificare, ma che non possiamo più ignorare con i nuovi dati 2023” afferma Elga Corricelli, co-founder dell’Associazione Ricerca Felicità e advisor dell’ecosistema di startup sostenibili Lifegate Way. Bisogna ormai rendersi conto che il tema della felicità come meta-competenza e del benessere dei lavoratori italiani non può più aspettare. È quindi fondamentale prendere coscienza di questo cambiamento in atto e concretizzare politiche per creare maggior benessere per tutti e limitare il più possibile la migrazione di talenti all’estero. Quello che rischiamo ogni giorno di più è che, paradossalmente, un lavoro in sede estera risulti più attraente sia in termini di offerta che in termini di benessere lavorativo”.

Paradossalmente, nel 2022, secondo una nota redatta congiuntamente dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dalla Banca d’Italia e dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), si è rafforzata la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato. Sono stati creati oltre 410mila posti di lavoro stabili, mentre gli impieghi a termine sono rimasti sostanzialmente stazionari. Risulta evidente che la sicurezza economica e l’impiego a tempo indeterminato, fino a qualche anno fa agognati da qualsiasi lavoratore italiano, oggi non bastano più per essere felici.

Il posto fisso quindi, parafrasando quell’esilarante opera di satira sociale che è il film Quo vado di Checco Zalone, “non è più sacro”. Oggi, a spingere le persone a dimettersi da un lavoro sicuro e a scappare all’estero sono fattori più profondi, meno materiali, in cui anche il trattamento economico ha un peso relativo. “Come abbiamo detto la self awareness, la conoscenza di sé stessi, è la base della felicità”, racconta Elga Corricelli in un’intervista a LifeGate. “Il lavoratore dovrebbe prediligere un’organizzazione in linea con i propri valori e un lavoro che gli permetta di applicare i propri talenti, perché così lavorerà meglio e sarà più felice”.

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Coltivare la felicità sul luogo di lavoro fa aumentare la produttività, con benefici che ricadono sull’azienda © Peter Olexa/Pixabay

Scarso riconoscimento dei meriti e senso di appartenenza in forte diminuzione

Tra le causa della sempre più diffusa voglia di cambiare professione figurano lo scarso riconoscimento dei meriti e la conseguente diminuzione del senso di appartenenza all’azienda: entrambi i valori decrescono per ogni categoria generazionale dal 2022. L’individuo vede sempre meno riconosciuti i propri meriti all’interno del contesto di lavoro, conseguentemente anche il senso di appartenenza viene a mancare”, afferma Elisabetta Dallavalle, presidente dell’Associazione Ricerca Felicità. Un malessere generalizzato, quindi, legato da un lato alla scarsa valorizzazione professionale da parte delle aziende, dall’altra alla volontà, dopo la pandemia, di poter lavorare in modo più agile e “a misura d’uomo”.

I risultati dell’Osservatorio Felicità BenEssere arrivano infatti in un momento di particolare fermento per il mondo del lavoro, dominato dal dibattito sulla settimana corta. Dopo il successo ottenuto dalla sperimentazione in Inghilterra e in altri paesi, anche in Italia l’ipotesi di una settimana lavorativa di 4 giorni, fortemente sostenuta dalla Cgil, potrebbe essere vagliata dal governo. In sintesi, il malessere sul posto di lavoro in Italia può avere cause e spiegazioni differenti e trasversali ma risulta chiaro che sia necessario rivedere i modelli organizzativi nell’ottica di una maggiore qualità di vita. “Con questa survey vogliamo aiutare le aziende e i manager a comprendere le problematiche principali e capire dove attuare cambiamenti per migliorare la condizione dei lavoratori del nostro paese”, conclude Elisabetta Dallavalle.

 

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