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Paradisi fiscali, le banche europee prese con le mani nel sacco
Le 20 principali banche europee hanno messo un quarto dei loro profitti al riparo dalle tasse in paradisi fiscali.
Un quarto degli utili delle 20 più grandi banche europee sono generati nei cosiddetti “paradisi fiscali”, paesi cioè in cui la fiscalità è ridotta o assente. Peccato che negli stessi paesi queste realizzino solo il 12 per cento del loro fatturato e – fatto ancora più sconcertante – impieghino solo il 7 per cento dei loro effettivi. Sospetto? Molto sospetto per l’ong britannica Oxfam che nel rapporto Opening the vault (Aprendo i caveau, ndt) pubblicato questa settimana denuncia la disinvoltura con cui le banche europee si servono dei paradisi fiscali per eludere le tasse.
Leggi anche: Perché la lotta ai paradisi fiscali è una questione di civiltà
Quegli stakanovisti dei dipendenti Barclays in Lussemburgo
“Il titolo di impiegato dell’anno va ai dipendenti di Barclays in Lussemburgo che con 13 milioni di utili realizzati dimostra una produttività 348 volte superiore ai loro colleghi negli altri paesi”, ironizza l’ong. Questo perché la filiale lussemburghese della banca britannica – che conta solo 42 dipendenti – ha realizzato 557 milioni di euro di profitti. Ma anche i dipendenti che lavorano in una filiale nei paradisi fiscali della banca italiana Intesa San Paolo (Irlanda o Lussemburgo, ad esempio) non se la sono cavata affatto male: sono 20 volte più produttivi dei loro colleghi negli altri paesi. Si tratta chiaramente di stime metodologicamente discutibili ma che per Oxfam hanno un merito: “Certe differenze di produttività sembrano confermare l’ipotesi di trasferimenti artificiali di profitti a fini fiscali verso paesi a fiscalità vantaggiosa o nulla.”
Evasione e buoi dei paesi tuoi
Nell’immaginario collettivo, le Isole Cayman incarnano l’ideale di “paradiso fiscale”. E infatti le quattro principali banche francesi vi hanno ad esempio realizzato 174 milioni di euro di utili… senza avere nemmeno un dipendente sul posto! Ma sfatiamo un mito: i paesi più gettonati nella lista di 31 paradisi fiscali stilata da Oxfam si trovano proprio qui, in Europa. I 900 milioni di profitti della banca britannica di cui sopra, ad esempio, sono stati realizzati in tre paradisi fiscali del vecchio continente: Svizzera, Irlanda e Lussemburgo. Proprio in Lussemburgo, la tedesca Deutsche Bank porta a casa un bell’utile di 1,2 miliardi di euro quanto in tutti gli altri paesi in cui è presente (ad eccezione di Hong Kong, altro paradiso fiscale…) ha chiuso in rosso. L’Irlanda poi si rivela un terreno assolutamente fertile per le banche: ben cinque delle venti analizzate – tra cui l’italiana Unicredit – vi hanno realizzato profitti superiori al loro fatturato!
Lontano dagli occhi, lontano dalle tasse
Ipotizzando performances coerenti con quelle registrate dalle altre filiali delle venti banche europee, Oxfam stima che i profitti nei paradisi fiscali non dovrebbero superare i 13 miliardi e mezzo, quasi la metà dei 25 miliardi dichiarati. Ma allora perché le banche hanno gonfiato i profitti? Torniamo a Barclays. Nel 2015 la banca britannica è quella che dichiara di aver generato più utili – 900 milioni su 5 miliardi complessivi – in paesi dalla fiscalità vantaggiosa. E infatti, sui 557 milioni di utili in Lussemburgo, ha pagato solo un milione di tasse. Sugli 83 milioni generati a Hong Kong in compenso, non ha proprio pagato un bel nulla. Globalmente, sono 383 i milioni di euro di utili sui cui le venti banche analizzate da Oxfam sono riuscite a non pagare un solo centesimo di tasse nel 2015. Un bel risparmio.
Oggi per le banche è più difficile mantenere certi segreti
Il lavoro di Oxfam non sarebbe stato possibile senza la direttiva europea approvata nel 2016 – sul modello di una legge francese del 2013 – che obbliga le banche a essere più trasparenti sulla loro attività. Ormai la banche europee devono infatti rendere note le liste delle filiali e la loro attività, il fatturato realizzato, gli addetti impiegati, benefici e perdite e l’ammontare delle imposte pagate come pure le eventuali sovvenzioni pubbliche ricevute. È così che un anno dopo lo scandalo dei Panama Papers – che provavano come la banca francese Société Générale avesse ordinato la creazione di 1.005 società ombra per i suoi clienti – le banche europee si fanno cogliere loro stesse con le mani nel sacco.
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