Cooperazione internazionale

Rohingya, il popolo della Birmania più perseguitato al mondo

I rohingya sono un gruppo etnico musulmano perseguitato. Indifesi e dimenticati da tutti. Persino da un premio Nobel per la Pace.

I rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana che vive nello stato birmano del Rakhine, una regione che si affaccia sul golfo del Bengala e che confina a nord con il Bangladesh. La loro presenza in queste terre, anche conosciute come Arakan prima del 1989, risale all’VII secolo. Oggi, su quasi quattro milioni di abitanti, i rohingya sono 800mila, circa il 20 per cento di Rakhine (la Birmania ha quasi 53 milioni di abitanti).

Secondo le Nazioni Unite sono una delle minoranze più perseguitate e rifiutate al mondo. I birmani, infatti, non li considerano connazionali, bensì cittadini del Bangladesh, con cui condividono la fede musulmana e il ceppo linguistico, e ritengono siano arrivati in Birmania durante il periodo coloniale britannico.

Nel corso della storia questa popolazione ha dimostrato di poter convivere in modo pacifico con altri gruppi etnici, soprattutto nel periodo in cui l’Arakan era un regno indipendente. I problemi sono cominciati con l’invasione dei birmani avvenuta tra il 1784 e il 1826 e al successivo periodo fatto di guerre e di conflitti con l’impero britannico che ha portato alla dichiarazione di indipendenza della Birmania (oggi Myanmar) nel 1948. Già allora la minoranza non fu riconosciuta come un gruppo nazionale, mentre nel 1982 gli venne negata la cittadinanza.

Rohingya, un popolo senza terra

Non essendo cittadini, i rohingya che ancora vivono in quest’area sono privati dei diritti fondamentali, come la libertà di associazione e di spostamento. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) non possono essere proprietari terrieri. Non possono andare a scuola o curarsi negli ospedali del paese. 

Questo trattamento nasconderebbe da parte del governo birmano l’intenzione di scacciare i rohingya dalla regione sfruttando il nazionalismo della popolazione locale a maggioranza buddista. Di praticare la pulizia etnica secondo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch che si occupa della difesa dei diritti umani. Circa 200mila sarebbero già scappati dalla Birmania per ritrovarsi senza documenti in campi profughi di fortuna in Bangladesh o lungo il confine meridionale con la Thailandia. Ad altri 100mila rohingya invece è stato impedito di lasciare il paese e vivono in campi controllati dalle autorità.

Le violenze del 2012

Nel giugno del 2012 la tensione con il resto della popolazione locale di religione buddista è esplosa dopo il verificarsi di alcuni episodi di criminalità che hanno coinvolto persone di etnia rohingya. La reazione della maggioranza buddista è stata violenta (ha causato centinaia di vittime), sproporzionata e continua ancora oggi.

Il governo birmano ha dichiarato lo stato d’emergenza mentre la minoranza musulmana sta cercando di abbandonare lo stato di Rakhine per sottrarsi alle persecuzioni ed evitare di finire nelle mani di trafficanti e organizzazioni criminali. Ai 200mila profughi oltre confine, vanno aggiunti i 140mila interni che vorrebbero abbandonare la Birmania per raggiungere paesi di religione musulmana, fuggendo via terra (in Thailandia) o via mare (in Malesia e Indonesia).

L’ultima notizia è del 2 febbraio quando la polizia thailandese ha individuato un campo profughi di fortuna composto da tende e baracche in cui vivevano 531 persone e arrestato tre uomini thailandesi. Il campo, segnalato da alcuni reporter della Reuters, si trovava all’interno di una piantagione di alberi della gomma nella provincia di Songkhla, al confine con la Malesia. L’irruzione della polizia non ha comunque risolto o migliorato la loro condizione. Gli uomini sono stati trasportati in centri di detenzione, le donne e i bambini in centri di raccolta temporanei. Ora rischiano di essere rimpatriati o, peggio, di finire nelle mani di trafficanti di uomini.

Gli appelli delle Nazioni Unite in favore del popolo fantasma

Per porre un freno a tutto questo, le Nazioni Unite hanno richiamato più volte il governo birmano. L’ultima dopo la morte di 48 rohingya in un piccolo villaggio occidentale della Birmania. Navi Pillay, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha chiesto una “indagine rapida, imparziale ed esaustiva” sulla condizione  del popolo rohingya che faccia luce sulle violenze e sui trasferimenti forzati.

Per capire quanto questo popolo sia invisibile agli occhi della comunità internazionale e dei governi di qualsiasi colore politico, persino la leader dell’opposizione birmana e premio Nobel per la Pace nel 1991 Aung San Suu Kyi rimane in silenzio. È stata criticata per non essersi schierata apertamente in difesa della comunità musulmana nonostante sia stata a sua volta prigioniera politica della giunta militare. Una conferma del fatto che forse non è mai esistito un popolo più dimenticato e abbandonato dei rohingya.

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