Secondo il dossier Stop Pesticidi nel piatto 2025 di Legambiente, su 4.682 campioni di alimenti, il 48 per cento contiene residui di sostanze chimiche.
I risultati di un’indagine condotta dall’Istituto Ramazzini hanno mostrato come l’erbicida può alterare alcuni importanti parametri biologici nell’organismo. Ora si cercano fondi per portare avanti lo studio globale sul glifosato e fornire dati certi sui suoi effetti.
Il glifosato sarebbe dannoso per la salute anche nelle dosi considerate “sicure”: è la conclusione a cui sono giunti gli scienziati dell’Istituto Ramazzini conducendo uno studio globale sull’erbicida più usato al mondo. Nella fase pilota gli effetti del glifosato sono stati indagati su ratti esposti ad una concentrazione di erbicidi a base di glifosato (GBHs) equivalente alla dose giornaliera considerata accettabile nella dieta. E i risultati hanno mostrato che queste sostanze sono capaci di alterare alcuni importanti parametri biologici, con particolare riguardo allo sviluppo sessuale, alla genotossicità e al microbioma intestinale.
Lo studio globale, che ha coinvolto diversi enti ed università in Europa e negli Stati Uniti (come l’Università di Bologna, l’ospedale San Martino di Genova, l’Istituto superiore di sanità, la Icahn school of medicine del monte Sinai di New York e la George Washington University) è nato con l’obiettivo di fornire alle istituzioni dati solidi e indipendenti sulla sicurezza del glifosato su cui regna un’incertezza scientifica e politica. Se infatti nel 2015 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato il glifosato come “probabile cancerogeno per l’uomo”, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), in seguito alla valutazione dell’Istituto federale tedesco per la valutazione del rischio (BfR), ha successivamente affermato invece che “il pericolo cancerogeno per l’uomo è improbabile”, mentre l’Agenzia europea per la chimica (Echa) è giunta alla conclusione che “le evidenze scientifiche disponibili non soddisfano i criteri necessari per classificare il glifosato come cancerogeno, mutageno o tossico per la riproduzione”. Una valutazione del glifosato da parte l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) degli Stati Uniti è attualmente in corso, ma intanto nel novembre del 2017 gli stati dell’Unione europea hanno rinnovato per cinque anni la licenza d’uso per il glifosato.
Lo fase pilota dello studio, che si è svolta presso l’Istituto Ramazzini di Bentivoglio, Bologna, a partire dal 2016, costituisce la base per un successivo studio integrato a lungo termine e mirava ad ottenere informazioni generali sulla tossicità dei GBHs durante diversi periodi dello sviluppo (neonatale, infanzia, adolescenza), oltre che ad identificare precoci marker espositivi. Il glifosato e un suo formulato (Roundup Bioflow, MON 52276) sono stati testati su ratti Sprague Dawley, a partire dalla vita embrionale fino a 13 settimane dopo lo svezzamento, esposti ad una dose di glifosato in acqua da bere equivalente alla dose giornaliera accettabile nella dieta secondo l’Epa (cRFD) (1)– 1.75 mg/Kg/die.
I risultati hanno mostrato che i GBHs, anche a dosi considerate sicure e dopo un periodo relativamente breve di esposizione (equivalente nell’uomo ad un’esposizione dalla vita embrionale fino ai 18 anni), possono alterare alcuni importanti parametri biologici, in particolare relativi allo sviluppo sessuale, alla genotossicità e al microbioma intestinale. In particolare, i dati ottenuti hanno rivelato un alterazione di alcuni parametri dello sviluppo sessuale nei ratti trattati con GBHs, specialmente nelle femmine. Inoltre, i ratti trattati con GBHs hanno mostrato delle alterazioni statisticamente significative del microbioma intestinale, in particolare durante lo sviluppo. Per quanto riguarda la genotossicità, è stato osservato un aumento statisticamente significativo di micronuclei nelle cellule del midollo osseo nei ratti trattati con GBHs, specialmente nelle prime fasi della vita. I ratti trattati con glifosato puro o con il suo formulato hanno mostrato livelli comparabili di glifosato e del suo principale metabolita (Ampa) nelle urine, dimostrando quindi un assenza di differenze significative nell’assorbimento ed escrezione di glifosato nei due gruppi di trattamento, ma suggerendo un effetto di bioaccumulo del glifosato proporzionale al tempo di trattamento.
Lo studio è stato condotto grazie a fondi equivalenti a 300mila euro raccolti grazie agli oltre 30.000 soci dell’Istituto Ramazzini: i dati relativi all’indagine sono disponibili online e saranno pubblicati a fine maggio in tre articoli nella prestigiosa rivista scientifica Environmental Health. Per continuare lo studio globale, il cui budget totale è di cinque milioni di euro, è stata lanciata una campagna di crowdfunding: un’indagine a lungo termine risulta necessaria ora per estendere e confermare le prime evidenze emerse nello studio pilota e fornire risposte definitive ai diversi dubbi che rimangono sugli effetti cronici sulla salute dei GBHs, inclusi quelli cancerogeni.
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