Il Mahabharata si ipotizza fosse già compiuto tra il VII e VI secolo a.C. e che, attraverso diversi rimaneggiamenti e integrazioni, sia giunto ad assumere la sua forma attuale tra il IV secolo a. C. e il IV d. C.. Quest’opera si è quindi formata ed ampliata in un lungo periodo, attraverso diversi secoli, inglobando leggende e miti antichi della tradizione culturale dell’India. Oltre all’abbondante materiale leggendario e mitologico, vengono qui esposte e sviluppate varie dottrine filosofiche e religiose: alcune sono legate alla tradizione vedica e alla filosofia delle Upanishad, altre sono di origine più tarda e per molti aspetti si differenziano dalle prime. E’ quindi, difficile fare un’analisi sistematica del Mahabharata o descriverne sinteticamente il pensiero, perché non si tratta di un’esposizione organica di idee; l’opera raccoglie in sé aspetti anche tra loro contrastanti e manca di un’omogeneità lineare. Ad esempio in alcune parti la prassi dei rituali religiosi viene accettata e glorificata, mentre in altre viene avversata. Nello stesso modo, compaiono diverse divinità, in parte legate all’antico politeismo della fede popolare, in parte come nuovi Dei; l’idea, però fondamentale che percorre il poema è quella monoteistica che riconosce un unico dio supremo, più che nella forma impersonale che ritroviamo nella speculazione filosofica delle Upanishad, nella forma di un dio personale, più vicino alla religiosità popolare. Il cuore filosofico e spirituale del Mahabharata è la Bhagavadgita che costituisce una parte del grande poema. Nella Bhagavadgita la speculazione filosofica è tradotta anche in prassi, in insegnamento concreto per l’uomo che vuole percorrere una via spirituale per raggiungere quello che è l’obiettivo centrale del pensiero religioso indiano: la liberazione dal samsara, dall’eterno ciclo di morti e rinascite dell’essere e dalla legge del karma, il legame di azione e reazione che tiene l’uomo prigioniero del samsara.