Pinguini all’Equatore e altre bufale sul clima nel nuovo libro di Serena Giacomin e Luca Perri

Pinguini all’Equatore è il libro di Serena Giacomin e Luca Perri che strappa qualche risata mentre smonta le bufale legate al clima.

Perché si preferisce credere a un vichingo omicida piuttosto che agli scienziati quando si parla di clima? È una delle domande che ci rivolge Serena Giacomin, presidente di Italian climate network, mentre parliamo insieme a lei del nuovo libro, edito da De Agostini, che ha scritto insieme a Luca Perri, astrofisico e divulgatore scientifico: Pinguini all’Equatore.

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Pinguini all’equatore – Serena Giacomin e Luca Perri

Pinguini all’Equatore è il nuovo libro di Serena Giacomin e Luca Perri

Il titolo offre già uno spunto su cosa dobbiamo aspettarci da queste pagine: Giacomin e Perri smontano passo dopo passo alcune delle frottole più famose in materia climatica. Lo fanno con ironia, rendendo la lettura di questo volume piacevole e leggera, ma anche con rigore scientifico, perché alla base di queste leggende ci sono convinzioni errate che possono contribuire a passare messaggi distorti su un problema così complesso come la crisi climatica.

L’ironia di una domanda del genere ci porta a chiedere chi sia il vichingo in questione e cosa c’entri con il clima. E così parte una lunga chiacchierata che spazia da Annibale che attraversa le Alpi con chissà quanti elefanti, alla prima azione di marketing della storia, fino ad arrivare alla problematica odierna dell’inquinamento e alle manipolazioni che pseudo esperti fanno dei dati.

Ciò che emerge è la certezza che, quando si parla di clima, non si sia ancora trovato il giusto equilibrio tra correttezza e fruibilità delle informazioni. Messaggi corretti, ma troppo complessi non riescono ad arrivare al cuore delle persone e allo stesso modo messaggi troppo semplificati rischiano di essere errati o facilmente manipolabili. Una speranza però arriva da metodi di comunicazione alternativi e da nuove alleanze che potrebbero nascere in un futuro non troppo lontano.

Com’è nata l’idea di scrivere Pinguini all’Equatore, un libro sulle frottole del clima?
È nata perché spesso e volentieri quando ci sono degli eventi o incontri sui cambiamenti climatici ci sono delle bufale che emergono nel momento durante il confronto con il pubblico. Io e Luca ci occupiamo di educazione nelle scuole e spesso alcune dichiarazioni fatte da scienziati come Rubbia, che è un premio Nobel, o Zichichi, sono delle dichiarazioni molto pesanti e capaci di creare dubbi che vanno poi a distruggere delle evidenze scientifiche. È evidente che ci sia bisogno di nuovi modi di comunicazione. I cambiamenti climatici e la fisica del clima sono argomenti estremamente interessanti, ma proporre una lettura troppo pesante su questi temi potrebbe non essere la strada giusta anche per arrivare a un pubblico più vasto, in termini di successo della scienza. Trovare nuovi meccanismi potrebbe voler dire anche andare a trovare qualcosa di divertente. Analizzare alcune bufale è stato divertente, conoscevo alcuni aspetti, ma non tutti. Per scrivere un libro ho davvero dovuto scavare nelle storie, per capire cosa ci fosse dietro e a volte è stato sorprendente.

Quali sono le bufale più famose che avete smontato?
Tra le più famose c’è quella della Groenlandia come “terra verde”, un nome che è stato dato al tempo dei vichinghi. Ci troviamo intorno all’anno mille e questo nome è stato dato da Erik il rosso, un vichingo omicida nato in Scandinavia. Dopo essere stato cacciato dalla sua terra si è spostato in Islanda con la sua famiglia e pochi conoscenti, ma dopo poco è stato allontanato anche da lì. Quindi è partito con le drakkar – le navi vichinghe, ndr. – ed è arrivato in Groenlandia, nella parte sudoccidentale che dà verso il Labrador che tuttora è la parte più mite del paese. Ricordiamoci che si parla di un vichingo che era stato prima in Scandinavia e che poi si è spostato in Islanda, non una persona che viveva in una zona tropicale. Lui l’ha definita una terra verde perché per stanziarsi lì aveva bisogno un insediamento. E quindi ha creato la prima azione di marketing della storia ed è tornato in Islanda raccontando di questa terra rigogliosa. Da lì un insediamento si è spostato nelle terre da lui descritte, ma ci è rimasto poco, circa 100 anni, che in termini di insediamento di una civiltà è pochissimo.

La questione è: com’è possibile fidarsi di più di un vichingo omicida piuttosto che di dati scientifici che raccontano la storia climatica dell’isola groenlandese? Quindi abbiamo deciso di infilare i tanti dati che abbiamo oggi a disposizione (che vengono dalle carote di ghiaccio, dai dataproxy) nelle pieghe delle leggende. Il nostro sforzo è stato quello di trovare, all’interno della narrazione scientifica, dei puntelli legati alle leggende. È stato molto bello lavorare con Luca per incrociare le nostre competenze, da climatologa ad astrofisico.

Un’altra delle più famose è quella di Annibale, che è stata quella raccontata da Rubbia in Senato nel 2014 dicendo “il clima è sempre cambiato, infatti poco più di 2000 anni fa Annibale ha attraversato le alpi con gli elefanti africani”. In alcuni testi scolastici c’è addirittura scritto che erano ventimila, in pratica come quindici campi da calcio che attraversano un valico alpino. Fisicamente non ci stanno [ride]. Sui testi storici si parla di 37, non ventimila, oltre che delle immense difficoltà che hanno avuto a camminare su terreni innevati e ghiacciati. In più, l’unico ad essere sopravvissuto è quello di Annibale.

Con che criterio avete scelto queste storie per Pinguini all’Equatore?
Abbiamo scelto le sei più famose: Groenlandia, Annibale, l’attività solare, l’orbita e l’asse terrestre, la CO2 che fa bene, gli esopianeti. La traccia di tutto è il dubbio: come riconoscerlo, perché lo è e perché può essere dannoso. E anche che tipo di dubbio: alcuni sono positivi e stanno alla base dell’evoluzione scientifica, e devono poi essere analizzati con metodo scientifico. Gli altri dubbi più irragionevoli sono legati alla paura, alla credenza.

Purtroppo, le bufale ormai si trovano ovunque, anche in contesti dove non dovrebbero essere.
L’emergenza sanitaria ha fatto emergere delle falle incredibili nella comunicazione scientifica. Non è facile analizzare una situazione quando è ancora in divenire. Da una parte abbiamo un aspetto positivo: la condivisione dei dati e dei risultati che i ricercatori portano avanti. Dall’altro questa condivisione quasi istantanea che viene difesa come libertà di comunicazione e fruizione del dato, alcune volte porta a delle conseguenze devastanti. Mi riferisco ad esempio a dei preprint che vengono pubblicati e diventano già titoli di giornale, senza essere sottoposti al vaglio della comunità scientifica. È giusto rendere i dati fruibili, ma forse solo da parte di chi ha gli strumenti per interpretarli e poi creare un canale funzionale ed efficace verso il mondo del giornalismo che si occupa di prendere quei dati e portarli alle persone. Accorciare troppo queste distanze può creare dei problemi.

Un po’ quello che è successo con la tematica dell’inquinamento
La tematica dell’inquinamento ha subìto un’estrema semplificazione negli anni, ma bisogna ricordare che si parla dell’insieme di tantissimi inquinanti che si comportano in maniera diversa. Se si analizzano le conseguenze della prima ondata di lockdown in termini di riduzione di gas inquinanti quello che si è visto è che dipende dall’inquinante che si prende in esame. Se si prendono i pm10 si ha un risultato, se si prende il pm2,5 se ne ha un altro, se si considerano gli ossidi di azoto se ne ottiene un altro ancora, perché sono diverse le fonti. Il pm10 è un particolato atmosferico che ha diverse fonti e alcune sono originate dalla combustione, mentre altre dalle correnti atmosferiche che ti portano, ad esempio, le polveri del deserto. E infatti abbiamo avuto un picco di pm10 a fine marzo perché avevamo delle correnti atmosferiche che portavano delle polveri desertiche. Non a caso, se si analizzavano i filtri di misurazione erano gialli e non neri.

Poi però capita che arrivi l’assessore che dice: “vedete anche se non ci muoviamo, in realtà il pm10 non cala”. Non è così, semplicemente utilizza dei dati che servono per avvalorare la sua posizione. Invece chi vuole comunicare che cambiare le abitudini contribuisce ad abbassare l’inquinamento, prende in esame gli ossidi di azoto – un inquinante estremamente sensibile al traffico e all’utilizzo delle caldaie –, che infatti durante il primo lockdown erano crollati.

I giovani si sono mobilitati molto in questi anni, rendendosi promotori del cambiamento. Come vede questo loro impegno?
È fondamentale cercare di avere più basi sulle quali prendere le proprie decisioni. Credo molto nella complementarità delle cose. Come Italian climate network abbiamo una base scientifica molto rigorosa. Ci sono realtà come i Fridays for future che magari hanno sviluppato meno questo aspetto, ma hanno una capacità di penetrazione nettamente più forte rispetto a noi. È nostro dovere anche come Icn cercare di stringere il nostro network: noi possiamo fornire i dati ai giovani attivisti e loro, con la loro forza di reazione, possono aiutare a diffonderlo. Non dimentichiamo che il loro messaggio è “ascoltate la scienza”. In più loro hanno questa capacità e volontà di guardare al futuro perché lo vogliono ancora costruire. Per questo credo che il loro modo di immaginare il futuro sia un valore aggiunto.

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