Editoriale

Cosa ci insegna il 2020 sulla crisi climatica

Dobbiamo sfruttare gli spazi di cambiamento per evitare che la crisi climatica diventi così grave da spingerci verso un meccanismo di rimozione collettiva.

Le previsioni della Noaa, l’agenzia americana per gli oceani e l’atmosfera, lo avevano anticipato già in aprile: a soli quattro mesi dal suo inizio, il 2020 avrebbe avuto il 75 per cento di probabilità di diventare un anno “storico” per la crisi climatica. Ora sono arrivate le conferme.

Ad aprire le danze è stato Copernicus climate change service, il programma europeo che si occupa di cambiamenti climatici. Il 2020 è stato l’anno più caldo in assoluto, pareggiando l’aumento di temperatura del 2016 (finora il più caldo di sempre) con 1,25 gradi centigradi in più rispetto alla media del periodo pre-industriale (1850-1900) e 0,6 rispetto al periodo precedente a quello che stiamo vivendo (1981-2010). Dello stesso avviso anche l’Istituto Goddard per gli studi spaziali che fa capo alla Nasa. Mentre per la Noaa e per l’organizzazione indipendente Berkeley Earth, il 2020 è secondo di pochissimo al 2016. Per uno scarto quasi impercettibile.

Cosa ci insegna l’annus horribilis

Per tutti, dunque, il 2020 è stato definito un annus horribilis anche per il clima globale. Sarebbe stato strano il contrario. Primo o secondo che lo si voglia considerare, con il record del 2020, gli ultimi sei anni sono stati i più caldi dall’inizio delle rilevazioni. Con i primi tre con differenze impercettibili tra loro.

Per Copernicus il 2020 è stato anche l’anno più caldo di sempre per il continente europeo con 1,6 gradi centigradi in più rispetto alla media del periodo 1981-2010 e con uno scarto di o,4 gradi rispetto al record precedente, registrato nel 2019.

L’Europa, dunque, è rovente. È un hotspot del riscaldamento globale. Eppure nessun quotidiano nazionale ha dedicato lo strillo in prima pagina per dare notizia di questo fatto che dovrebbe mettere in secondo piano qualsiasi altra crisi, sanitaria o politica che sia. Così non è stato. Nessuno ha reputato importante per i suoi lettori il fatto che l’anomalia più consistente per il nostro continente si sia verificata laddove dovrebbe fare più freddo: l’Artico e la Siberia, entrambe con aumento della temperatura pari a 6 (sei!) gradi centigradi rispetto alla media del periodo 1981-2010.

La crisi climatica non è fatta di numeri

I dati e i numeri, le statistiche e le classifiche, però, sono solo una piccola parte di questa storia. Come fatto notare dal quotidiano New York Times, il dramma consiste in un aumento delle ondate di calore, degli uragani e degli eventi meteorologici estremi, dalla siccità che conduce alla desertificazione e agli incendi senza precedenti alle inondazioni che causano danni enormi, non solo agli insediamenti umani.

Il nuovo (quasi) record, tra l’altro, si è verificato nell’anno del fenomeno climatico della Niña che dovrebbe “regalare” anni più miti per via di una temperatura della superficie marina più fredda del solito nell’oceano Pacifico. Al contrario del Niño che è causa di un riscaldamento del Pacifico orientale. Anche se va precisato che gli effetti della Niña – che ha iniziato a manifestarsi a settembre 2020 – dovrebbero mostrarsi quest’anno. Il 2021, dunque, non dovrebbe “spezzare” la catena dei record consecutivi.

Data la scarsa copertura dei mezzi d’informazione e dei governi, vien da chiedersi a cosa sia servito un anno come il 2020 se non ha cambiato i modi in cui facciamo informazione su temi di portata globale e vitali per ogni singolo individuo e comunità che vive su questo Pianeta. Abbiamo “subito” un rallentamento delle emissioni di gas serra in atmosfera, ma questo non ha e non avrà effetti concreti se il calo non diventa trend. A cosa è servito fermarsi se nemmeno il giornalismo ha cominciato a cambiare, a fare pressione, a seguire le preoccupazioni dei cittadini (che hanno dimostrato di avere a cuore il proprio futuro e quello delle generazioni che verranno) nel loro modo di dare le notizie, cosa si può pretendere da chi ha interesse a mantenere saldo lo status quo?

La crisi climatica si può sconfiggere in modo collettivo

È un quesito sul quale dobbiamo riflettere, soprattutto in questi giorni in cui il modo di comunicare sta subendo giorni rivoluzionari in seguito ai fatti accaduti negli Stati Uniti. Gli stessi Stati Uniti che hanno registrato un crollo delle emissioni di CO2 del 10 per cento e che se solo fossero in grado di mantenere questo trend potrebbero avvicinarsi all’obiettivo dell’Accordo di Parigi.

Dobbiamo sfruttare l’occasione e gli spazi di cambiamento messi a disposizione da un anno straordinario, nel senso più ampio del termine, per evitare che i cambiamenti climatici diventino così gravi da spingerci “ad attivare un meccanismo di rimozione collettiva, volto a sublimare un problema che ci sovrasta e per il quale non siamo in grado di trovare soluzioni”, come scritto da Stefano Liberti nel suo libro Terra bruciata. È l’ultima chance che abbiamo per costruire un futuro degno del nome della specie che rappresentiamo – sapiens sapiens.

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