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Dal 2006 la popolazione di Rosia Montana lotta contro una società canadese che vorrebbe riaprire la miniera d’oro con tecniche insostenibili. Nel 2015 la multinazionale ha fatto causa alla Romania.
Rosia Montana è un piccolo comune minerario sui monti Apuseni, in Romania, che riunisce sedici villaggi rurali in cui vivono tremila abitanti. Dai primi anni Duemila questo fazzoletto di terra è entrato nelle mire della multinazionale canadese Gabriel Resources che ha individuato proprio in questo remoto paese della Transilvania il luogo dove realizzare la più grande miniera a cielo aperto di estrazione dell’oro in Europa. Decisione che ha scatenato una serie di proteste, richieste di risarcimento miliardarie e casi di inquinamento. Dopo 15 anni, questa storia non vede ancora una fine.
Era il 2006 quando le miniere statali di Rosia Montana venivano chiuse per poter permettere alla Romania di entrare a far parte dell’Unione europea: il piccolo distretto della Transilvania operava in costante perdita, richiedendo ingenti sussidi governativi (oltre due milioni e mezzo di euro all’anno) giudicati incompatibili con le normative europee.
Una volta chiusa, la concessione mineraria sui 24 chilometri quadrati di territorio è passata nelle mani della Roșia Montana gold corporation (Rmgc), che fa capo all’80 per cento alla società canadese Gabriel Resources, per il 19,3 per cento al governo romeno e per la restante parte a piccoli investitori locali. Rilevata la concessione, Rmgc ha chiarito fin da subito i propri obiettivi: sostituire i vecchi processi produttivi con altri più moderni ed aderenti agli standard imposti dall’Unione europea, aprendo però quella che sarebbe diventata la più grande miniera d’oro a cielo aperto d’Europa.
Alle prime dichiarazioni della Rmgc ha fatto seguito la nascita di un movimento di protesta popolare composto per lo più dalla gente del luogo e che ha attirato su di sé una vasta attenzione da parte dei mezzi di informazione. Salvati Rosia Montana (in italiano Salvate Rosia Montana) è il nome del movimento, il più grande dalla fine del comunismo nel Paese nel 1989, sulla scia dei No tav italiani che si oppongono alla linea ad alta velocità tra Torino e Lione, e del movimento di protesta dei sioux – che a quel tempo ancora non c’era – che si oppone alla costruzione dell’oleodotto Dakota access pipeline. Nel 2013 decine di migliaia di manifestanti romeni sono scesi in piazza per opporsi al progetto di estrazione.
Salvati Rosia Montana ha organizzato proteste, dibattiti pubblici e festival per combattere il gigante canadese, accusato di voler distruggere l’ambiente circostante: sebbene le miniere esistano fin dai tempi dei romani, con il nuovo progetto non si parla più di scavare gallerie ma di far sparire quattro montagne con la tecnica del “mountain top removal”, come già avviene negli Stati Uniti.
Oltre a sbancare il territorio, fanno notare gli ambientalisti, si prevede di utilizzare tra 30 e 50 milioni di tonnellate di cianuro ed enormi quantità di acqua, che dovrebbero poi essere stoccate in un bacino artificiale per la cui costruzione verrebbe edificata una diga alta 185 metri. L’impatto poi non è solo di tipo ambientale, ma anche sociale: i fautori del progetto chiedono il trasferimento di 2064 proprietà private e la demolizione di quasi mille abitazioni.
In tutto questo la politica romena ha giocato e gioca un ruolo decisivo, soprattutto a causa dei suoi ritardi e delle promesse non mantenute. Il primo è stato l’ex ministro della Cultura Theodor Paleologu che dapprima si è recato a Rosia per mostrare interesse verso la questione, ma poi non ha intrapreso alcuna azione sul piano formale, se non scagliarsi, una volta uscito dal governo, contro la multinazionale criticata per aver instaurato un rapporto coloniale con la Romania. Dopo i primi appelli propagandati nel 2010, il sito di Rosia Montana è stato candidato a diventare patrimonio Unesco dell’umanità. Questo accadeva nel 2016: nonostante le promesse, però, il governo uscente non ha lasciato continuità alla candidatura.
Intanto la multinazionale canadese non è stata a guardare, anzi: nel 2015 la Rmgc ha intentato una causa contro lo stato romeno chiedendo inizialmente un risarcimento di 4,4 miliardi di dollari (circa 4 miliardi di euro) al governo romeno, diventanti poi 5,7 miliardi di dollari nel 2019, in quanto la Romania – sostiene Rmgc – avrebbe violato gli obblighi nei suoi trattati bilaterali di investimento con il Canada e perché non avrebbe concesso le autorizzazioni necessarie. Tra le altre cose, la società ha avanzato a sostegno della sua tesi il fatto che il governo romeno abbia proposto di trasformare Rosia Montana in un sito patrimonio Unesco, di fatto ostacolando la realizzazione della miniera.
Nonostante questa spada di Damocle, di recente l’Agenzia nazionale per le risorse minerarie (Anrm) ha esteso alla Gabriel Resources la licenza di concessione dei diritti estrattivi sul territorio di Rosia Montana per altri cinque anni. Non solo, ma ha anche aumentato le royalties, ovvero il canone riscosso dallo stato romeno in cambio dello sfruttamento delle sue terre, dal 4 al 6 per cento. Mossa questa che ha già prodotto i primi segnali di cedimenti nell’attuale governance di stato. Non è la prima volta che il governo cede alle “lusinghe” del colosso canadese: già nel 2013, con un decreto, la destinazione d’uso della zona è stata convertita alla sola estrazione mineraria, impedendo di fatto ai residenti di avviare attività produttive agricole o di altra natura commerciale. D’altronde è rendendo difficile la vita ai locali che si spera di vincere la battaglia: Salvati Rosia Montana sta ancora provando a resistere a tutto questo.
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