Rossella Muroni. In Italia ritardi mostruosi sull’adattamento ai cambiamenti climatici

Per Rossella Muroni, deputata ed ex presidente di Legambiente, “sull’adattamento ai cambiamenti climatici l’Italia ha accumulato un ritardo mostruoso”

È un inizio di estate caldissimo, dominato dai cambiamenti climatici che ci stringono tra una siccità inedita, che sta portando per la prima volta l’Italia a valutare il razionamento dell’acqua, e tragedie come quelle della Marmolada, che ha messo drammaticamente a nudo il fenomeno dello scioglimento dei nostri ghiacciai. All’indomani del tragico crollo del seracco, che ha causato (ad oggi), 9 morti accertati, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato il suo monito: “I cambiamenti climatici vanno governati”.

Come? Lo strumento ci sarebbe, è il Piano di adattamento che però è in stallo dal 2018, dopo che nel 2015 l’Italia aveva approvato la Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici: quello che manca, è l’allarme di Rossella Muroni, deputata, fondatrice di FacciamoEco ed ex presidente di Legambiente, è la sua messa in atto.

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Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente © Alce Nero

Che differenza c’è tra strategia e piano contro i cambiamenti? Siamo pronti affrontarli come chiede Mattarella?
Siamo in un ritardo mostruoso, perché la prima strategia europea è del 2012, quando l’Agenzia europea per l’ambiente ha attivato il Climate Adapt, in cui venivano date indicazioni e strumenti per scrivere strategie nazionali di adattamento, e questo l’Italia ce l’ha. Ma avere una strategia non significa avere un piano, che le dia concretezza: la strategia aveva una visione a 15 anni, tanto che i primi obiettivi erano posti al 2020. Ormai siamo al 2022… 

In pratica, siamo fermi mentre il mondo e l’Italia cambiano…
Ci mancano mosse e investimenti adatti a fare due passi necessari: da una parte adattarci ai mutamenti con progetti e iniziative, dall’altra mettere in campo la mitigazione e ridurre le emissioni di CO2. Su entrambe stiamo in stra-ritardo, mentre viaggiamo a velocità supersonica per quanto riguarda gli effetti.

Eppure l’Italia, come tutto il Mediterraneo, è considerata una zona particolarmente esposta all’aumento delle temperature: possibile che non si valuti il rischio?
La scienza ci considera uno “spot” del cambiamento, siamo sottoposti a eventi meteorologici estremi. Certamente è una situazione che va affrontata a livello globale ma anche da soli possiamo fare delle cose concrete: un piano di mitigazione, lo sviluppo di fonti rinnovabili, il risparmio energetico. In questo noi procediamo lenti e sincopati, non abbiamo ancora neanche un Piano nazionale energia e clima in linea con l’Europa: un paese che non si muove in linea con strumenti e finanziamenti a disposizione è un paese che non affronta la situazione.

Eppure siamo alla prese con un’opportunità, quella del Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr, che è unica e che punta proprio sulla transizione.
Va detto che il piano di adattamento si deve intrecciare, deve essere trasversale, includere la biodiversità e la ri-naturalizzazone degli ambienti. Nel decreto Clima è stata fatta grande ironia sulle foreste urbane, che invece sono strumenti scientifici da mettere in campo per ri-naturalizzare l’ambiente. Così come serve una strategia per l’impermeabilizzazione del suolo, che oggi ci mette in difficoltà quando ci sono alluvioni. E poi c’è il rispetto delle foreste, le colture idrovore che non vanno più finanziate. E la siccità.

In troppi credono che la penuria di acqua è un problema che non riguarda solo altre latitudini?
Dobbiamo puntare sul risparmio idrico, sulla gestione del recupero delle acque piovane, e agire sugli ambienti naturali messi a rischio. Il Po è una cartina di tornasole: fortunatamente nel Pnrr c’è un progetto importante per il bacino del Po, ma il tema andava affrontato da molti anni, perché è un luogo, come le Alpi e gli Appennini, dove si misurano i cambiamenti. Ripeto: gli strumenti ci sono, manca il piano, l’attuazione. La sensazione è che si navighi a vista, invece serve una visione a lungo raggio, sì, ma anche azioni subito.

Intanto gli esperti dicono che crolli come quello della Marmolada sono destinati a ripetersi. Le nostre montagne sono diventate un pericolo?
Sì. E se non affrontiamo anche il tema della riconversione economica nel turismo delle nostre montagne facciamo un grande errore. Se leggiamo le serie storiche delle temperature, c’è un trend che dura da diversi anni: è ampiamente prevedibile che distacchi di ghiaccio come quello dell’altro giorno si ripeteranno. Eppure c’è chi continua a parlare di impianti di risalita, neve artificiale, quando è chiaro che questo comporta un ulteriore problema di impatto idrico. Noi invece stiamo cambiando, la caratterizzazione climatica del nostro paese sta cambiando e dobbiamo prenderne atto: dobbiamo cambiare economia, modo di fare turismo. Abbiamo la fortuna di avere un turismo che può offrire tutto, dobbiamo puntare su qualcosa di più dolce, con meno infrastrutture.

Siamo al punto di prima: tutti i nodi della società, e della politica, sono coinvolti nel cambiamento necessario.
Tutti i temi si tengono: quello che vediamo sullo scioglimento dei ghiacciai è legato alla siccità, all’aumento temperatura e agli alluvioni autunnali. Io voglio lanciare un appello: spero che in tv si smetta di ospitare negazionisti climatici, non se ne può più di persone che dicono che i cambiamenti ci sono sempre stati e che è tutto normale. Ovvio, i cambiamenti climatici ci sono sempre stati, ma qui il tema è l’accelerazione del fenomeno.

Quanto conta insistere anche sulle abitudini quotidiane del cittadino, per esempio la scelta di una dieta vegetariana?
Io non sono vegetariana, ma per esempio non mangio carne più di una volta a settimana. Siamo prodotti di una società che da piccoli ci insegnava che mangiare tanta carne era sinonimo di salute. Ma dobbiamo convincerci del fatto che il benessere che ci è stato raccontato nei decenni scorsi è il grande inganno del secolo, e dovremmo prenderne atto. Per restare al cibo, dovremmo iniziare dalle mense scolastiche proponendo una filiera corta, tanta verdura, pescato locale.

Proprio qualche giorno fa ho presentato uno studio sulle mense scolastiche, sono rimasta incredula nel leggere alcuni dati: sprechiamo il 40 per cento del cibo, i bambini lo rifiutano e mangiano sostanzialmente pasta in bianco. Questo significa anche una perdita di consapevolezza del cibo come cultura, come economia, come elemento di socializzazione. Si dice che mangiando, facendo acquisti, si fanno scelte politiche perché si orientano le decisioni. Dobbiamo agire sui bambini, perché possono diventare degli ottimi ambasciatori, insegnando certe cose anche ai genitori. D’altronde il futuro è nelle loro mani.

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