È rimasto ormai solo un muro a ricordare una delle più gravi tragedie ambientali causati dall’essere umano: il disastro di Seveso. Il peggiore in Italia. Quel muro – fatto di mattoni rossastri, a vista – si trova nella via che, ancora oggi, resta intitolata all’azienda che provocò la catastrofe: via Icmesa. Siamo a Meda, nella provincia di Monza e Brianza, in Lombardia. Una targa con un breve testo e due fotografie campeggia sulla stradina che termina sul cancello che un tempo fungeva da ingresso dell’industria chimica. Quell’industria sorgeva al confine con un altro comune, passato alla storia per aver subito le peggiori conseguenze dell’incidente: Seveso, 16mila anime all’epoca dei fatti.
Il suo nome, 49 anni fa, fece il giro del mondo, dopo che una nube tossica si sprigionò da un reattore chimico, avvelenando 40mila persone. Oltre a quelli di Seveso e Meda, ad essere colpiti furono anche i comuni di Cesano Maderno, Bovisio, Varedo e Desio. Eppure oggi sembra che sia tutto sopito, tutto dimenticato. Quasi a voler cancellare una macchia, un’onta per il territorio.
“È scattata la logica delle rimozione, non se ne parla più. Le istituzioni ci hanno regalato il bosco delle Querce dove ricordare tutti gli anni questa tragedia, ma non se ne parla più”, spiega Davide Biggi, che in quel luglio del 1976 aveva soltanto dodici anni. “Da quando sono partiti i lavori per costruire la Pedemontana lombarda, però, la gente si è rianimata, nessuno di noi vuole respirare di nuovo la diossina”, aggiunge. È una nuova autostrada, quindi, a riaccendere oggi la paura per una sostanza tossica che piombò nelle case mentre si era a tavola per un pranzo estivo.
Disastro di Seveso: l’esplosione di un reattore chimico e il coraggio di un uomo
È mezzogiorno di sabato 10 luglio quando nell’azienda Icmesa di Meda cede un disco di sicurezza del reattore A 101. L’ultimo anello di una catena di inadempienze, superficialità e permessi concessi troppo facilmente a un’azienda che produceva, tra gli altri, persino il defoliante utilizzato dagli Stati Uniti durante la guerra nel Vietnam: l’agente arancio. Secondo la ricostruzione più accreditata, il reattore rimase privo del sistema di raffreddamento e le molecole di triclorofenolo presenti all’interno si unirono tra loro. Formando una devastante nube piena di tetraclorodibenzoparadiossina (Tcdd). Più nota con il nome comune di diossina: una sostanza estremamente tossica e cancerogena.
All’interno dello stabilimento a quell’ora del sabato c’erano pochi operai, tutti concentrati in un altro settore. Uno di loro, però, fortunatamente intervenne: si chiamava Carlo Galante, capo del reparto dove si producevano i diserbanti. Stava pranzando con la famiglia a pochi metri dalla fabbrica quando sentì uno strano rumore. Guardando fuori dalla finestra vide del fumo colorato uscire proprio dal suo posto di lavoro. Senza pensare troppo alle conseguenze possibili, Galante esce di casa e si avvicina al reattore per far scattare manualmente il sistema di raffreddamento, non intervenuto in modo automatico a causa di un’avarìa.
Quella manovra riuscì ad evitare ulteriori fuoriuscite di diossina, e per questo l’operaio fu premiato con una medaglia d’argento al merito civile, vent’anni dopo la sua morte. Ma la catastrofe era ormai inevitabile. Il vento stava già spingendo quella prima nube verso sudest, investendo decine di case, orti e strade. In modo silenzioso, senza nessun allarme. Perché la stessa Icmesa tentò di nascondere per giorni l’incidente. Così, alla popolazione non arrivarono allarmi immediati.
#10luglio 1976: una fuga di diossina dallo stabilimento ICMESA, tra Meda e #Seveso, contaminò una vasta area di comuni della bassa Brianza.
La prontezza del capo reparto non fu infatti seguita dalla società proprietaria dello stabilimento Icmesa, la svizzera Givaudan, a sua volta controllata da La Roche. Solo il giorno dopo, domenica 11 luglio, due tecnici della società avvisarono il sindaco di Seveso, Francesco Rocca, dell’accaduto. Ma non era ancora possibile comprendere l’effettivo danno ambientale: si ipotizzò che la nube fuoriuscita avesse potuto contenere diossina, ma si attense una conferma dal laboratorio della società, a Lugano. Il sindaco Rocca decise però di chiamare immediatamente il suo omologo di Meda, per capire cosa fare.
Già quella domenica si notarono infatti alberi rinsecchiti improvvisamente e i primi uccelli selvatici morti. Nei giorni seguenti iniziarono i primi accessi ai pronto soccorso dei comuni di Meda e Seveso per dermatiti e problemi agli occhi. “I miei genitori quel sabato erano in giardino, faceva caldo, e sentirono subito un odore strano e un fastidio alla pelle. Mio padre nei giorni seguenti sviluppò una forte dermatite alle braccia e i medici che lo curarono gli spiegarono cosa fosse successo. Lui e mia madre sono morti di tumori ematologici alcuni anni fa, è logico pensare che sia stata quella maledetta nube”, ricorda Enrica, che all’epoca si salvò perché lontana, in vacanza.
Solo cinque giorni dopo l’incidente, il 15 luglio, l’ufficiale sanitario del comune di Seveso, il dottor Uberti, raccomandò alle autorità di prendere “immediati provvedimenti per tutelare la salute della popolazione”. I sindaci dei due comuni avrebbero dovuto “delimitare la zona con paletti recanti come testo la seguente dicitura: Comuni di Seveso e Meda. Attenzione. Zona infestata da sostanze tossiche. Imporre il divieto di toccare o ingerire prodotti ortofrutticoli, evitando contatti con vegetazione, terra ed erbe in genere”.
Fu a quel punto che gli abitanti della zona vennero avvisati, attraverso manifesti esposti nelle vie, della necessità di non toccare ortaggi, né terra, né erba, né animali della zona probabilmente contaminata e di mantenere la più scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti, usando l’acqua come migliore detergente.
Malattie e sfollati, le zone di contenimento: un lungo incubo
Ci vollero però altri due giorni affinché, il 17 luglio, i giornali cominciassero a parlare dell’evento, dopo gli arresti degli allora direttore e vicedirettore dello stabilimento. E soltanto il 18 l’industria Icmesa venne chiusa, per volontà della dirigenza svizzera. Nel frattempo, le decine di accessi ai pronto soccorso evidenziavano ormai senza ombra di dubbio l’esposizione alla diossina, con decine di casi di cloracne infantile.
Visi mangiati dalla diossina: la pelle stava reagendo con un’eruzione cutanea provocata dalla presenza di determinati composti alogenati, come le diossine clorurate. Inoltre la clinica Mangiagalli a Milano aprì anche alla possibilità di praticare aborti, in un momento in cui vigeva ancora il divieto più assoluto (in virtù di una deroga speciale approvata dal governo). La diossina provoca infatti deformazioni nel feto.
Nel frattempo anche gli animali da cortile e domestici iniziarono a morire. Si arrivò a contare 2.953 carcasse nelle settimane seguenti. I sindaci di Meda e Seveso emisero ordinanze pubblicate sui giornali locali: il divieto di toccare animali e ortaggi divenne obbligatorio il 22 luglio, quando il territorio venne diviso in tre zone: A, B e di rispetto (R) in base alla presenza di Tcdd nel suolo. Il 26 luglio venivano evacuate le prime 200 persone dal quartiere San Pietro che costeggia la ditta, mentre i soldati delimitavano la zona isolata con filo spinato e cartelli con divieti di accesso. In pochi giorni le persone ricollocate in altri quartieri o alberghi saranno 736, molti bambini vennero accompagnati in colonie estive sul lago Maggiore per alcune settimane.
Nei mesi successivi si cominciò a parlare di bonifica attraverso un primo progetto di un inceneritore, bloccato dagli stessi sindaci locali, e poi di asportazione del terreno inquinato e ricollocazione in vasche di cemento. Le proteste degli sfollati arrivarono dopo diversi mesi, con la prima manifestazione l’11 ottobre 1976 quando un gruppo di residenti della zona A, a maggior esposizione, ruppe i sigilli e occupò pacificamente le case e la superstrada Milano-Meda. La popolazione chiese di poter tornare a casa, di poter tornare alla normalità. Ma nessuno di loro ci riuscì, poiché si decise di abbattere e tombare in vasche apposite tutto il materiale esposto: case, alberi e terreni. Tra il 1981 e 1984 venne sbancato un enorme pezzo di territorio, e costruita una zona di contenimento dei terreni inquinati dove sorgeva Icmesa e la zona A, dando vita al Bosco delle querce. Gli espropriati furono ricollocati in case nuove a metà degli anni Ottanta, mentre l’industria Icmesa veniva rasa al suolo e gli operai inseriti in altri contesti lavorativi. Tutta la tragedia scomparve così alla vista. La stessa Regione Lombardia impostò la sorveglianza sanitaria e ammise che il rischio di errori fosse alto, proprio a causa della dispersione nel territorio delle persone colpite dalla diossina.
Le direttive sul disastro di Seveso negli anni
Il 16 giugno 1977 il Parlamento approvo l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla fuga delle sostanze tossiche dall’Icmesa, con il compito di accertare le attività della fabbrica di Meda, le responsabilità amministrative relative all’insediamento industriale e le conseguenze dell’incidente sulla salute dei cittadini, sull’ambiente, sul territorio e sull’economia della zona. La Commissione avrebbe dovuto indicare anche i provvedimenti da adottare “per indennizzare i cittadini danneggiati dall’incidente del 10 luglio 1976 e per ottenere dai responsabili dello stesso il risarcimento dei danni”. L’organismo parlamentare raccolse fino al 1978 decine di testimonianze e dati sull’esposizione alla diossina.
La relazione conclusiva, presentata nel luglio dello stesso anno, indicò la società svizzera come la principale colpevole, lasciando senza responsabilità oggettive le istituzioni locali. Durante i due anni di lavoro diversi esponenti della ditta vennero raggiunti da agguati di stampo terroristico. Esempi eclatanti l’attacco all’ufficiale sanitario di Seveso Giuseppe Ghetti che venne gambizzato o il pacco bomba esploso contro la porta di casa del vice-direttore della Roche, Rudolf Rupp. Il gesto più dirompente contro Icmesa però avvenne il 5 febbraio 1980 quando un commando del gruppo politico estremista Prima Linea assassinò l’allora direttore della ditta, Paolo Poletti, che stava gestendo la bonifica.
Mentre i Comuni colpiti dal disastro aprivano un contenzioso giudiziario per chiedere i danni alla multinazionale La Roche, il ministero dell’Interno e la Regione Lombardia raggiungevano un accordo con la società perché si assumesse l’onere di pagare la somma di 103 miliardi di lire e 634 milioni per il “disastro di Seveso”. Alla fine la multinazionale svizzera pagherà oltre 200 miliardi di lire tra risarcimenti personali e costi delle diverse bonifiche effettuate. Le ultime sentenze risalgono addirittura agli inizi degli anni Duemila, con i tribunali di Monza e Milano che confermavano le condanne e le richieste di indennizzo anche per i danni psicologici e morali subiti dai residenti della zona rossa. Dei cinque dirigenti inizialmente denunciati, nel 1986 solo i responsabili tecnici dell’Icmesa, Jorg Sambeth e Herwig von Zwehl, furono condannati, rispettivamente a un anno e mezzo e due anni di reclusione.
Ma il disastro ha anche avuto un impatto forte a livello giudiridico. Prima del 10 luglio 1976 infatti non esistevano normative nazionali o sovranazionali che obbligassero le industrie chimiche a prevenire eventuali eventi disastrosi, sia per l’ambiente che per le comunità che vivono nei pressi dei poli chimici. A seguito quindi della tragedia di Seveso gli stati europei già nel 1982 emanarono una prima direttiva sovranazionale che si deve applicare per i grandi stabilimenti chimici, con l’obbligo di segnalare agli enti territoriali quali sostanze vengono prodotte e quali sono i piani di emergenza per eventuali incidenti. La direttiva prende il nome di Seveso, proprio a causa dell’enorme rilevanza sociale e ambientale che il disastro dell’Icmesa provocò in quegli anni. La norma ha subito diverse modifiche in questi ultimi anni, arrivano alla direttiva Seveso III, recepita nell’ordinamento italiano nel 2015.
Il progetto della Pedemontana e il ritorno della paura per la diossina
Il 9 luglio 2024, un giorno prima dell’anniversario della tragedia, in un incontro a porte chiuse presso il Bosco delle querce la società Pedemontana lombardaha discusso il nuovo piano di bonifica dei terreni inquinati in vista della costruzione del lotto B2 dell’autostrada che collegherà Gallarate con Trezzo sull’Adda. Si parla dei terreni contaminati dalla diossina che insistono nella zona B, quella dove si erano ritrovati fino a quattro microgrammi di diossina. Lo scopo è rimuoverli senza disperdere contaminante in atmosfera e stoccarli in discariche autorizzate (in provincia di Bergamo, Brescia, Milano, Pavia, Vicenza, Pisa, Como, Novara, Alessandria, Reggio Emilia, Massa Carrara e Verona). Il progetto autostradale della Pedemontana attraversa proprio la parte colpita nel 1976, prendendo alcuni lotti di terreno proprio dal Bosco delle querce.
“A distanza di quasi cinquant’anni dalla nostra tragedia le istituzioni non sono ancora trasparenti sul tema diossina, decidono del nostro territorio senza aprirsi alla popolazione esposta. Noi non ci stiamo”, denunciano i manifestanti che picchettano fuori le porte del centro civico al Parco delle Querce.
Da quando si è tornati a parlare di Pedemontana, dal 2006, diversi sindaci della zona hanno incluso la ricerca di diossina nel loro Piano di Governo del Territorio perchè si ha paura di tornare a respirare sostanze tossiche.
Davide Biggi, una delle anime del movimento Usciamone vivi
La società Pedemontana assicura che opererà con la massima attenzione nella movimentazione dei 44mila metri cubi di terreno inquinato, ma per il momento non si hanno ancora i dati prodotti dall’Arpa Lombardia per capire quanta diossina ci sia effettivamente sotto quei lotti.
Sul muro rimasto in piedi dell’Icmesa, il comune di Meda ha esposto un cartello, dove c’è scritto “1948,1949, 1953, 1957, 1961, 1963, 1969, 1970, 1972, 1974″: sonogli in anni in cui venne segnalato l’inquinamento provocato dalla fabbrica prima della tragedia. Segnalazioni fatte da singoli cittadini, consiglieri comunali, sindaci di Seveso e Meda. Alle richieste di mettere in sicurezza gli impianti da parte dei comuni, della Provincia e del Genio civile, Icmesa proponeva, progettava, prospettava. Ma nessuna modifica. E l’inquinamento del territorio circostante continuava indisturbato. Oggi, attorno a quella che fu la Icmesa c’è un’area verde, progettata quarant’anni fa. In attesa della nuova autostrada.
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