
Comprare meno, comprare meglio. Ecco nove brand per la nostra selezione mensile di marchi eco-conscious e rispettosi delle condizioni dei lavoratori
Un documentario rivela le condizioni dei lavoratori in Cina: 18 ore al giorno con un giorno di riposo al mese e paghe non dignitose.
Avete mai fatto un giro sul sito di Shein? Prezzi bassissimi, migliaia di nuovi capi e accessori ogni giorno e una potente strategia di influencer marketing alle spalle. Tutto questo ha un nome: ultra fast fashion.
Un’esasperazione dei ritmi serrati e dei modi non sostenibili di produrre del fast fashion, cucito addosso alla Gen Z, ovvero i nati tra la metà degli Novanta e i primi anni Duemila, e a quella immediatamente successiva, la Gen Alpha. Un modello di business dannoso e non necessario, soprattutto in un momento storico in cui è sempre più importante rivolgersi a realtà attente all’ambiente e alle persone, soprattutto nella moda.
È infatti veramente difficile trovare un capo Shein che superi i 50 euro: la maggior parte degli articoli in vendita oscilla tra 10 e 20 euro, ma si trova qualcosa anche a 6 euro o, nella sezione dei saldi, a meno di 3 euro. Il design dei prodotti costituisce un perfetto equilibrio tra capi basici da tutti i giorni e pezzi di tendenza.
Fondato in Cina, Shein è un brand dal valore di 100 miliardi di dollari, ovvero più di quello di due colossi come Zara e H&M messi insieme, ma fino a tre anni fa nessuno ne aveva mai sentito parlare.
Shein non è una realtà recente, anzi, è stato registrato nel 2012, ma è esploso con il periodo della pandemia. Mentre le vite di tutti, e soprattutto le vite di molti adolescenti, si trasferivano online, Shein passava dai 10 miliardi di dollari di fatturato del 2020 ai quasi 16 miliardi nel 2021. Universi come Tiktok e Instagram, nei quali Shein ha attivato un intenso “influencer program”, sono stati il terreno fertile che ha portato il brand cinese a vendere abiti come patatine anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, il loro prezzo è decisamente più simile a quello di un pacco di patatine che non a quello di un maglione.
L’influencer program di Shein è un sistema tramite il quale profili abbastanza seguiti su Instagram o su Tiktok si possono candidare per diventare ambassador del brand, ricevere un compenso economico e vestiti a volontà e, in cambio, creare contenuti promozionali. Praticamente Shein ha creato un sistema in cui sono gli stessi adolescenti a creare la pubblicità per un target di loro simili: nel caso dei video più popolari i capi possono andare sold out in pochissime ore.
Lato prodotto la strategia di marketing è di riversare sul mercato un “diluvio” di prodotti, quasi 6mila al giorno. Ma come fanno a produrne così tanti e a ciclo così continuo? A differenza della maggior parte dei brand che disegnano internamente i modelli e poi ne commissionano la realizzazione in serie per venderli sia online che in negozi fisici, Shein vende solo online e commissiona esternamente anche il design.
Questo sistema è molto snello e consente una produzione a ritmo serratissimo, ogni nuovo ordine viene consegnato nei magazzini di Shein nel giro di poche settimane e, da lì, gli abiti vengono poi smistati direttamente a casa del consumatore finale. Un ruolo cruciale nel riassortimento e negli ordini lo gioca poi la tecnologia: i pezzi più popolari sono individuati da un software e automaticamente riordinati, analogamente, l’ordine per i capi poco performanti, si interrompe immediatamente.
La forza di Shein in poche parole si basa sulla sovrapproduzione: 1,3 milioni di capi in 12 mesi, svela uno studio dell’Università del Delaware. Un flusso pressoché infinito di abiti garantito dal sistema totalmente esternalizzato e dall’assenza di negozi fisici. Nello stesso arco di tempo H&M rilascia 25mila nuovi prodotti e Zara 35mila, di certo già noti per essere al centro delle richieste, di consumatori e non solo, di migliorare la loro sostenibilità.
Se il fast fashion ha generato un sacco di problemi, all’ambiente in primis, ma anche al sistema moda stesso, adesso siamo di fronte a una nuova frontiera dell’iperconsumismo: l’ultra fast fashion. Con questa definizione i mezzi d’informazione identificano il mix esplosivo applicato dai brand come Shein e basato principalmente su tre fattori: il flusso costante di nuovi prodotti e nuovi design, i prezzi incredibilmente bassi e un tipo di comunicazione particolarmente efficace basata su quello che in gergo si chiama user generated content, contenuti pubblicitari creati dagli stessi utenti sui social network.
Guardando i video su piattaforme come Tiktok, gli spettatori vengono risucchiati nella spirale degli haul video, video in cui i creator mostrano i propri acquisti, pur sapendo che si tratta di advertising in piena regola.
Altri marchi di ultra fast fashion sono il cinese Romwe, che per altro è di proprietà dello stesso fondo che controlla Shein, l’americano Zaful, lo svizzero Tally Weijl tra i più famosi, ma la lista continua se ci si addentra anche nei nomi che non sono noti al grande pubblico e che operano nei mercati più disparati. Ad oggi però la posizione di leadership indiscussa di questo settore rimane comunque in capo a Shein.
I molti passaggi tagliati dall’azienda rispetto ai brand tradizionali consentono sì di abbattere i costi, ma non a sufficienza per giustificare i prezzi stracciatissimi.
In questi ultimi giorni Shein è di nuovo nell’occhio del ciclone per la questione del trattamento dei lavoratori sollevata da un documentario del canale britannico Channel 4.
L’inchiesta dal titolo Untold: Inside The Shein Machine è stata realizzata grazie a un reporter che si è introdotto sotto copertura in una delle fabbriche a cui Shein appalta la produzione e ha portato alla luce particolari agghiaccianti riguardo il lavoro in due stabilimenti di Guangzhou, in Cina.
In una delle due fabbriche, Channel 4 ha scoperto che i lavoratori, ai quali la paga del primo mese viene inspiegabilmente trattenuta, devono confezionare una media di 500 pezzi al giorno per ricevere uno stipendio di 4mila yuan al mese, cifra che corrisponde a circa 560 euro. Nell’altra, dove i dipendenti sono pagati a cottimo, la paga è di 4 centesimi ad articolo confezionato. Quello che accomuna le due fabbriche sono però gli orari massacranti: 18 ore al giorno con un solo giorno di stop al mese, neanche ogni settimana.
Non solo, Channel 4 ha rivelato altri particolari inquietanti come la decurtazione dello stipendio qualora vengano commessi degli errori o tenuti dei comportamenti ritenuti inappropriati. A due donne sono stati trattenuti i due terzi della paga perché sono state sorprese a lavarsi i capelli in pausa pranzo.
Gli orari e le condizioni di lavoro riportati da Channel 4 violano le leggi sul lavoro di qualunque paese del mondo, Cina compresa. Shein sul proprio sito liquida così le questioni riguardanti la sostenibilità dei suoi prodotti e della sua filiera: “Siamo un e-retailer globale impegnato a rendere la bellezza della moda accessibile a tutti. Utilizziamo la tecnologia di produzione on demand per collegare i fornitori alla nostra catena di approvvigionamento che, essendo molto snella, riduce gli sprechi di inventario e ci consente di fornire una varietà di prodotti convenienti a clienti di tutto il mondo”.
A Channel 4 il brand invece non ha mai risposto ma, incalzato da Business Insider, ha dichiarato che qualunque comportamento non conforme alla legge da parte dei fornitori verrà tempestivamente individuato e la partnership interrotta.
Il documentario, con le testimonianze dirette dei lavoratori, è chiaramente preoccupante, ma non stupisce del tutto: come fa un abito a costare 11 euro?
Il prezzo che non stiamo pagando noi lo sta inevitabilmente pagando qualcun altro. Sicuramente i lavoratori, ma anche l’ambiente e gli stessi consumatori. È di appena un anno fa un’altra inchiesta, condotta questa volta da Marketplace CBC News, che rilevava come in molti prodotti di Shein e di altri retailer di ultra fast fashion come Zaful e AliExress, fosse presente una quantità di agenti chimici superiore a quella consentita.
Nello specifico i ricercatori dell’agenzia governativa Health Canada avevano trovato, in una giacca per neonati di Shein, una quantità di piombo di quasi venti volte superiore quella stabilita come sicura per i bambini dal ministero della salute canadese, mentre una borsa, sempre di Shein, ne conteneva cinque volte tanto.
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