Perché la Turchia ha più paura dei curdi che dello Stato Islamico

Lo scorso 7 giugno si sono tenute le elezioni parlamentari in Turchia, ma da allora nessun partito è riuscito a dar vita a un governo, nemmeno di coalizione. Così il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha deciso di far tornare i turchi alle urne il primo novembre per cercare di sbloccare lo stallo politico. Chissà se

Lo scorso 7 giugno si sono tenute le elezioni parlamentari in Turchia, ma da allora nessun partito è riuscito a dar vita a un governo, nemmeno di coalizione. Così il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha deciso di far tornare i turchi alle urne il primo novembre per cercare di sbloccare lo stallo politico. Chissà se si sarebbe mai immaginato che lo stallo avrebbe ricevuto un duro colpo dal peggior attentato nella storia del paese che ha visto 97 persone morire in seguito all’esplosione di due bombe avvenuta sabato 10 ottobre nella capitale Ankara. Il tutto mentre i sindacati di sinistra, l’associazione dei medici e il Partito democratico dei popoli (Hdp) stavano manifestando contro la ripresa delle ostilità nel sudest del paese tra l’esercito turco e i ribelli del Partito curdo dei lavoratori (Pkk), l’entità che si batte da anni per l’indipendenza del Kurdistan anatolico e per la creazione di un “grande Kurdistan” che includa anche le regioni sotto la sovranità irachena, iraniana e siriana. Per questo è stata inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche sia dagli Stati Uniti (1997) che dall’Unione europea (2002).

 

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Turchi dell’Hdp durante una manifestazione © Burak Kara/Getty Images

 

Una battaglia su due fronti

Non è ancora chiaro chi siano i responsabili dell’attentato, ma il primo ministro ad interim Ahmet Davutoğlu ha puntato il dito contro il gruppo terroristico dello Stato Islamico (Isis) oppure contro lo stesso Pkk duramente “colpito” dall’attentato. Un’ipotesi, quest’ultima, evidentemente improbabile, ma che conferma i due fronti su cui è impegnato il governo: uno internazionale e uno interno. La questione curda, però, è il vero ago della bilancia della crisi politica turca perché per la prima volta in tredici anni il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) di Erdoğan non ha ottenuto la maggioranza alle elezioni del 7 giugno, mentre per la prima volta un partito curdo, l’Hdp, ha superato la soglia di sbarramento del 10 per cento (la più alta al mondo) diventando la terza forza parlamentare turca.

 

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Kobane, Siria, sotto assedio © Gokhan Sahin/Getty Images

 

Per questo, sono in molti, tra i curdi, a credere che l’attentato sia stato organizzato dai servizi segreti insieme ai nazionalisti per alimentare la cosiddetta “strategia della tensione” e sperare in una reazione armata del Pkk che metta i curdi, e quindi l’Hdp, in cattiva luce in vista delle prossime elezioni. La fine della tregua tra esercito turco e Pkk è stata sancita, guarda caso, in occasione di un altro attentato, quello di Suruç, che causò la morte 32 ragazzi colpevoli di aver cercato di dare il loro contributo nella ricostruzione della città siriana simbolo degli scontri tra la popolazione curda e lo Stato Islamico: Kobane. Da luglio a oggi, il conflitto tra esercito turco e i peshmerga (guerriglieri) curdi ha causato più di 1.500 morti.

 

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Un ritratto del leader curdo Massud Barzani © Spencer Platt/Getty Images

 

Da dove nasce il sogno di un “grande Kurdistan”

La lotta tra il Pkk e il governo di Ankara ha radici molto lontane. Dopo la fine della Prima guerra mondiale gli alleati vincitori promisero la creazione di uno stato del Kurdistan indipendente attraverso il Trattato di Sèvres (1920), poi sconfessato dal Trattato di Losanna (1923) che divise la regione tra ben quattro stati (Turchia, Iran, Iraq e Siria). Nel 1983 Massud Barzani – attuale presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno – e l’allora presidente turco Turgut Özal firmarono un accordo di non interferenza. Nel 1993, con la morte di Özal, morì anche la speranza di una soluzione negoziata tra le parti. Il leader del Pkk Abdullah Öcalan venne arrestato nel 1999 e incarcerato sull’isola turca di Imrali, dove è detenuto tuttora in totale solitudine. La storia recente vede un susseguirsi di tregue e riprese degli scontri che ora coinvolgono anche un terzo attore: lo Stato Islamico.

Erdoğan deve scegliere

La figura dell’Isis nella regione curda è emersa parallelamente al caos in Siria. Kobane ha ospitato gli scontri più violenti della guerra civile siriana e ha trasformato i curdi in un simbolo della resistenza contro l’espansione del gruppo di estremisti. Nonostante questo, la Turchia, ma anche la Russia e le potenze occidentali non hanno sostenuto ufficialmente i peshmerga lasciandoli pressoché soli in questa battaglia contro l’estremismo islamico. Una solitudine che conferma l’ambivalenza nell’atteggiamento di Erdoğan, da una parte impegnato a far capire – in vista delle elezioni parlamentari di novembre – che l’Akp è ancora l’unico partito in grado di mantenere e riportare la stabilità interna, dall’altro costretto a mostrare il pugno duro anche contro l’Isis, tanto più se venisse confermata l’ipotesi che siano stati proprio due kamikaze dello Stato Islamico ad aver portato la guerra nella capitale della Turchia.

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