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All’ospedale di Kalongo in Uganda l’allerta è altissima. Medici e infermieri si preparano ad affrontare l’epidemia di coronavirus in una situazione sanitaria già precaria.
È salito a 79 il numero di persone affette da coronavirus, responsabile della malattia Covid-19, in Uganda. Si tratta di un Paese dove ci sono solo dodici unità di terapia intensiva, per un totale di 55 posti letto disponibili, pari a 1,3 posti letto in terapia intensiva per milione di abitanti. Il sistema sanitario è debole, c’è carenza di personale medico e di attrezzature adeguate. La capacità diagnostica è ancora insufficiente per frenare la propagazione della pandemia. E il governo ugandese ha prorogato il lockdown del Paese fino al 5 maggio.
Al Dr. Ambrosoli memorial hospital di Kalongo, nel nord del paese, l’allerta è altissima. A differenza dei nostri ospedali che, per quanto in affanno, hanno mezzi, strumenti e risorse, l’ospedale di Kalongo dovrà combattere la battaglia contro la Covid-19 a mani nude. L’ospedale non ha terapia intensiva né sarà in grado di allestirla perché servirebbero attrezzature molto costose, oggi difficilmente reperibili, e soprattutto personale specializzato.
L’ospedale di Kalongo ha attraversato una drammatica guerra ventennale, ha affrontato emergenze sanitarie, vissuto la minaccia di epidemie come l’ebola, convive da sempre con malaria, Hiv, malnutrizione e povertà. L’esperienza nella gestione delle emergenze sanitarie che hanno ciclicamente colpito il nord Uganda, rappresenta un patrimonio importante su cui l’ospedale può contare, oggi, per affrontare l’emergenza coronavirus.
Anche per questo è stato identificato come centro di riferimento distrettuale per i casi sospetti e per il trattamento dei casi moderati, mentre i casi più gravi dovrebbero essere riferiti agli ospedali con letti di terapia intensiva. Il dottor Godfrey Smart, medico chirurgo e Amministratore delegato dell’ospedale, è parte della task force distrettuale per l’emergenza Covid-19.
“L’ospedale è preparato, è stato istituito un centro di isolamento per possibili sospetti, abbiamo seguito i corsi di preparazione per la pandemia. È stato creato un punto di screening davanti agli ambulatori per tutti quelli che entrano in ospedale, staff compreso. Posso dire con sicurezza che l’ospedale è pronto”, afferma il dottor Okwir del reparto di medicina generale dell’ospedale.
A Kalongo la battaglia si gioca perciò tutta sulla prevenzione. In tutte le aree dell’ospedale sono stati predisposti dispositivi per il lavaggio delle mani, avviato un programma di formazione per il personale sanitario, organizzati momenti di sensibilizzazione della comunità locale.
È stata istituita una prima task force composta da sei infermieri, un medico, un paramedico, un tecnico di laboratorio. Sono stati predisposti nuovi spazi e percorsi interni ed esterni all’ospedale, per valutare e gestire i casi sospetti, allestita una nuova unità d’isolamento per accogliere le persone contagiate.
Gli interventi chirurgici non urgenti sono stati posticipati, rinviate le missioni mediche e le attività di assistenza sanitaria sul territorio. Ora è essenziale per l’ospedale proteggere adeguatamente gli operatori sanitari ed evitare che si attivino catene di contagio tra i pazienti. È fondamentale innanzitutto salvaguardare le persone affette da Hiv, malnutrizione e altre gravi patologie, con un sistema immunitario debole e più esposte al rischio di contrarre il virus.
La Fondazione Ambrosoli ha predisposto un invio straordinario di fondi per consentire all’ospedale l’approvvigionamento immediato di dispositivi di protezione per il personale, di strumentazione di supporto per la cura dei pazienti, materiale sanitario e farmaci. Guanti sterili, maschere usa e getta, abiti monouso, stivali, visiere, detergente liquido, farmaci ma anche pulsossimetri e concentratori di ossigeno.
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“Sono giorni intensi e difficili”, afferma Giovanna Ambrosoli, presidentessa della Fondazione. “A metà marzo abbiamo dovuto disporre l’immediato rientro in Italia del nostro pediatra, il dottor Tito Squillaci e degli altri volontari, in vista della progressiva chiusura dei voli e dei collegamenti internazionali. Sappiamo che la loro partenza e la cancellazione di tutte le missioni dei medici italiani, impegnati ora nel nostro Paese nella battaglia contro il virus, stanno avendo importanti ripercussioni sulle attività cliniche e di formazione. La scuola di ostetricia, come tutte le scuole in Uganda, è stata chiusa. Viviamo anche queste scelte obbligate con grande preoccupazione, perché i nostri medici volontari e le studentesse della scuola sono una risorsa vitale per l’ospedale”.
“Non possiamo dimenticare che l’ospedale è l’unica struttura sanitaria di riferimento per un’area che accoglie circa 500mila persone, che ogni anno cura circa 50mila persone, la metà delle quali sono bambini che non superano i 5 anni di età”, ha proseguito Ambrosoli.
“Siamo in costante contatto con il direttore dell’ospedale, il dottor Smart e tutto lo staff medico, sostenendoli a distanza nell’implementazione del piano d’emergenza e supportandoli nella ricerca di forniture dall’estero per sopperire alla mancanza di materiali sanitari non più reperibili in Uganda. La situazione è in continuo sviluppo. Siamo preoccupati ma restiamo vigili e fiduciosi.
Siamo grati a tutti gli amici della Fondazione che, ancora una volta nonostante la difficile situazione che stiamo vivendo qui in Italia, ci dimostrano la loro vicinanza. Il loro sostegno è oggi più prezioso che mai e ci sollecita a fare sempre meglio, nonostante la complessità di questo momento, per sostenere l’ospedale di Kalongo”.
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