Acqua

Veleni nelle acque di Alessandria. La storia senza fine dell’azienda chimica Solvay

A giugno parte della rete idrica dell’alessandrino è stata chiusa perché inquinata da sostanze dannose per la salute e per l’ambiente. Le stesse usate dall’azienda chimica Solvay.

Spinetta Marengo è una frazione di Alessandria, un sobborgo di quasi settemila abitanti che vivono separati dalla grande città dal passaggio del fiume Bormida. Piccole strade, casette con giardino, una chiesa e l’industria chimica Solvay.

Le nostre famiglie sono composte da persone e da mamma Solvay. Cresciamo con questa presenza, ci giriamo intorno per tutta la vita

Viola, giovane residente di Spinetta

Il 23 giugno la multinazionale belga Solvay, leader mondiale per la produzione di sostanze chimiche, si è vista negare la possibilità di incrementare la produzione del C6O4, componente essenziale dei cicli di lavorazione per ottenere i loro prodotti di punta – come il polimero Algoflon che rende idrorepellente e antiaderente molti oggetti come pentole e tute oltre ad avere molte applicazioni nell’automotive. Per ottenere questo composto è essenziale fare uso di Pfas, sostanze perfluoroalchiliche considerate per la maggior parte tossiche e dannose per la salute umana e per l’ambiente.

Solvay a Spinetta Marengo
La multinazionale belga Solvay, è leader mondiale per la produzione di sostanze chimiche © Laura Fazzini

La decisione negativa è stata presa durante la Conferenza dei servizi, una riunione tra più enti con l’obiettivo di adottare una decisione comune o soltanto ascoltare il parere di altre amministrazioni rispetto a temi che impattino sul territorio. Comune di Alessandria, Arpa locale e Provincia in questo caso hanno ritenuto inadeguati i sistemi di trattamento dei reflui e delle emissioni in atmosfera presentate dalla multinazionale.

“Solvay può richiedere 60 giorni per adempire alle nostre richieste di sensibili miglioramenti tecnologici per non inquinare con il nuovo prodotto”, spiega il direttore di Arpa Alessandria, Alberto Maffiotti. La sostanza in discussione, ancora in fase di sperimentazione e sotto brevetto esclusivo di Solvay, fa parte della grande famiglia dei perfluoroalchilici (Pfas). Andrea Diotto, direttore dello stabilimento, chiarisce che “la richiesta di ampliamento è di un’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) per l’estensione della produzione che comporterebbe solo parziali modifiche a una linea produttiva già esistente e che inciderebbe dello 0,2 per cento sul totale della produzione dei prodotti florurati e dello 0,02 per cento sulla produzione totale”. A inizio giugno una grande quantità di questo prodotto è stato ritrovato in alcuni pozzi della zona, portando alla chiusura di parte della rete idrica dell’alessandrino.

Proteste contro l’azienda chimica Solvay © Laura Fazzini

Lo stabilimento chimico di Spinetta, le origini dell’inquinamento

Ad inizio Novecento la società chimica Marengo, nata da un gruppo di industriali, inizia a costruire un centro chimico nell’alessandrino. La localizzazione è dovuta alla grande quantità di acqua sotterranea e la presenza di diversi fiumi, utili per la fase di produzione e raffreddamento. Inoltre, la scelta è mirata ad impiegare la popolazione locale, fino a quel momento dedita all’agricoltura.

Viene prodotto solfato di rame e ossigeno, usato durante la guerra mondiale. In pochi anni gli operai arrivano ad un centinaio di unità e la produzione si specializza in sostanze fertilizzanti a base di solfato. Negli anni ’30 però la società vive un momento di crisi e viene acquisita da Montecatini, una società dedita ai coloranti, ampliando quindi il ventaglio della produzione.

Negli anni ’50 i prodotti chimici sono oltre una novantina, tra cui coloranti, bicromati, acidi e solfati. Nessuno ancora normato per legge e senza studi sulla nocività per l’essere umano.

L'azienda chimica Solvay a Spinetta Marengo
L’azienda chimica Solvay a Spinetta Marengo © Laura Fazzini

Lo stabilimento si ingrandisce e gli operai superano il migliaio, la maggioranza dei quali abita in piccole case accostate alla fabbrica. Le dure condizioni di lavoro e la salubrità del posto accendono l’attenzione dei sindacati sulla pericolosità delle sostanze. “Ero ragazzino alla fine degli anni ’50 e giocavo a calcio in una squadra di Spinetta. Durante le partite l’arbitro faceva un fischio particolare, era il segnale di buttarci a terra e rimanere sdraiati per non respirare l’aria inquinata che usciva dalle ciminiere della fabbrica”, racconta Claudio Lombardi, nato e cresciuto ad Alessandria, ex assessore all’ambiente e ora membro di Legambiente Alessandria.

Ero ragazzino alla fine degli anni Cinquanta e giocavo a calcio in una squadra di Spinetta. Durante le partite l’arbitro faceva un fischio particolare, era il segnale di buttarci a terra e rimanere sdraiati per non respirare l’aria inquinata che usciva dalle ciminiere della fabbrica.

Claudio Lombardi

Claudio Lombardi, Legambiente Alessandria
Claudio Lombardi, assessore all’Ambiente di Alessandria e ora membro di Legambiente © Laura Fazzini

Tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Settanta i pozzi interni dello stabilimento hanno già un forte inquinamento da cromo nella falda superficiale ed in parte in quella profonda e per questo il sindacato Cgil chiede una messa in sicurezza di parte del sito industriale. “La Montedison (nel 1966 Montecatini si fonde con Edison) pagava le grondaie ai residenti perché l’anidride solforosa prodotta scioglieva in poco meno di un anno tutte le parti in ferro delle case”, racconta un residente di Spinetta.

Negli anni Settanta l’intero stabilimento viene ristrutturato, si chiudono le produzioni di Bicromati, Pigmenti Coloranti, e altri materiali pericolosamente inquinanti come il biossido di titanio e inizia la produzione del fluoro, dell’Algoflon in particolare.

Dagli anni Ottanta in poi la principale produzione dello stabilimento di Spinetta, acquisito nel 2002 da Solvay, sono i prodotti fluorurati. Sostanze che la società belga produce in Italia in altri cinque stabilimenti a Ospiate (Milano), Mondovì (Cuneo), Livorno, Massa, Rosignano Solvay (Livorno).

Gli studi di uno zuccherificio e la lotta della dottoressa Rini

Negli anni Ottanta Licia Rini, a capo del laboratorio analisi dello zuccherificio a pochi chilometri dal sito industriale, nota per prima la presenza di grandi dosi di sostanze tossiche nelle acque nel sottosuolo dell’industria dolciaria. Denuncia come sia impossibile continuare ad utilizzare la rete idrica per lavorare lo zucchero e inizia a cercare le cause dell’inquinamento. “L’acqua è talmente piena di bicarbonato che a volte esce direttamente bianca, non è possibile usarla per la lavorazione delle nostre barbabietole”, racconta ad alcune associazioni ambientaliste locali. Subito il Wwf si spende per approfondire il problema, ritrovando alte concentrazioni di inquinanti nel fiume Bormida che attraversa Alessandria e passa a pochi metri dallo zuccherificio.

Lo zuccherificio vicino allo stabilimento dell'azienda chimica Solvay
Lo zuccherificio vicino allo stabilimento dell’azienda chimica Solvay © Laura Fazzini

Lo stabilimento dove lavora Rini viene via via dismesso e dopo anni di abbandono Esselunga e CoopSette, società edile che restaura edifici in tutta Italia, decidono di esaminare il terreno sotto lo zuccherificio in vista di grossi lavori per creare un centro commerciale. Dai primi esami dell’acque emerge una presenza di cromo esavalente di 288 microgrammi per litro, quando il limite nazionale è di 5 microgrammi per litro. Le due società fermano subito i lavori e abbandonano il progetto. Lo zuccherificio diventa rudere e ad oggi non ci sono progetti aperti il suo restauro.

I dati però vengono portati all’attenzione della Procura di Alessandria che inizia un’indagine attraverso il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri (Noe). Nel 2009 inizia un processo contro Solvay e Ausimont, l’azienda chimica che aveva la gestione del sito fino all’arrivo della società belga nel 2002. Il lavoro del Noe evidenzia come dal sito industriale siano fuoriusciti veleni che hanno inquinato oltre 1.150 metri cubi di terreni nel raggio di tre chilometri dal polo chimico.

La dottoressa Rini muore per tumore pochi anni dopo l’inizio del processo.

Il lavoro del Noe evidenzia come dal sito industriale siano fuoriusciti veleni che hanno inquinato oltre 1.150 metri cubi di terreni nel raggio di tre chilometri dal polo chimico.

Il processo, una lotta di oltre dieci anni

“Ero sotto la doccia, il 23 maggio 2008. Di botto è mancata l’acqua e non sapevo il motivo”, racconta Alice Lenaz, nata e cresciuta a Spinetta. Il sindaco aveva deciso senza preavviso di chiudere il pozzo della frazione di Fraschetta dopo l’uscita dei dati di CoopSette. “Pochi giorni dopo siamo andati ad un incontro pubblico con degli esponenti politici locali, la presidente della municipalità ed esperti. Hanno provato a spiegarci come stavano le cose, parlando però con termini talmente tecnici che nessuno dei residenti presenti aveva modo di capire. Mio padre, che di chimica ne sapeva per lavoro, ha capito e ha tradotto per tutto dal tecnichese. Da lì abbiamo deciso di costituirci parte civile al processo, noi e pochi altri. Perché la Solvay dava e dà lavoro a moltissimi e nessuno ha interesse a morire di fame”, racconta per telefono Lenaz.

Proteste contro l'azienda chimica Solvay
In dieci anni di udienze le società reputate colpevoli di avvelenamento doloso e omessa bonifica si sono dette innocenti © Laura Fazzini

Il processo affronta tre gradi di giudizio e termina il 12 dicembre 2019 in Corte di Cassazione. In dieci anni di udienze le società reputate colpevoli di avvelenamento doloso e omessa bonifica si sono dette innocenti per non aver cagionato la morte di nessuno e hanno tentato di spostare il processo in altra provincia. Delle 38 persone indagate, tre sono state condannate per il reato di disastro ambientale colposo. “Siamo riusciti ad affrontare tre gradi di giudizio, significa che avevamo la legge dalla nostra parte. È stato un processo lunghissimo, un unicum nel suo genere perché non si arriva mai alla Corte di Cassazione perché i reati vengono sempre prescritti prima”, racconta l’avvocato Vittorio Spallasso rappresentate del Wwf e alcuni residenti.

Dopo la condanna di primo grado nel 2015 il giudice ha mutato il reato in disastro ambientale colposo, alleggerendo così le accuse contro Ausimont e Solvay, essendo le pene meno gravose dei reati per avvelenamento doloso. La testimonianza in tribunale dell’epidemiologo dell’Arpa Ennio Cadum nel 2013 aveva dimostrato come il cromo esavalente e altri 20 veleni rilasciati nelle acque di Spinetta avessero provocato fino all’80 per cento di tumori in più nei tre chilometri vicini allo stabilimento.

Scritte della manifestazione del 23 giugno davanti alla Solvay
Scritte della manifestazione del 23 giugno davanti alla Solvay © Laura Fazzini

Le testimonianze dei sopravvissuti, ex dipendenti di Montedison, Ausimont e Solvay hanno parlato chiaro. Francesco Fedda, dipendente dello stabilimento fino al 2003, si è sottoposto a diversi interventi per tumore al terzo stadio del piccolo duodeno e al colon. Al processo testimonia come abbia lavorato per trent’anni nello stabilimento, bevendo l’acqua del pozzo interno. Nunzia Mancuso, residente in una via limitrofa allo stabilimento, perde il padre per tumore al pancreas dopo aver lavorato tutta la vita nel polo chimico. Ha rischiato di perdere anche la figlia che a soli 18 mesi si scopre malata di leucemia e sopravvive dopo quasi 5 anni di chemioterapia.

100 anni dopo, come sta Spinetta ora

Una recente pubblicazione sulla rivista scientifica Science, tradotta dai tecnici del blog Pfas.land che da anni raccolgono dati sulla situazione dell’inquinamento da Pfas, dimostra come l’origine di alcuni composti Pfas presenti in America siano stati prodotti nello stabilimento di Spinetta Marengo. Nel dicembre 2019 viene resa pubblica un’approfondita analisi epidemiologica – voluta dall’assessore all’ambiente del Comune di Alessandria Claudio Lombardi – che mostra come gli abitanti della zona siano affetti da gravissime patologie con eccedenze rispetto agli abitanti del resto della provincia estremamente elevate.

In America, nel New Jersey, l’attenzione su questo tipo d’inquinamento, sulla base di analoghe raccolte di dati epidemiologici, ha suscitato l’allarme della popolazione e una serie di processi ancora aperti, a Spinetta Marengo tutto sembra passare sotto traccia. Alle sette del mattino fuori dall’ingresso principale di Solvay gli operai entrano a decine, fermandosi al bar nel piazzale d’ingresso. “Di qualcosa si deve pur morire no?”, mi spiega uno di loro, quasi ridendo.

“Io non voglio ammalarmi, non voglio morire per qualcosa che ho bevuto a casa”. Viola, giovane abitante di Spinetta Marengo © Laura Fazzini

Qui tutte le famiglie hanno qualcuno ammalato e qualcuno di morto giovane.

Viola

“Io non voglio ammalarmi, non voglio morire per qualcosa che ho bevuto a casa”, ribatte Viola fuori dalla sede delle Provincia dove si sta discutendo dell’ampliamento della produzione del C6O4. La ragazza ha perso i nonni per tumore e sta assistendo il padre malato. “Qui c’è il ricatto occupazionale e io non voglio che chiuda. Voglio però che si bonifichi, che si riconverta la produzione in materiali non cancerogeni. Qui tutte le famiglie hanno qualcuno ammalato e qualcuno di morto giovane”. Il presidio, organizzato dal neonato comitato Stop Solvay, Legambiente e con una grande partecipazione delle Mamme NoPfas venute dalle terre inquinate del Veneto, ha però pochi partecipanti, “forse perché è un orario lavorativo, o forse perché la gente non ci crede più”, spiega Egio Spineto del comitato Stop Solvay.

Anche per Maffiotti di Arpa è una lotta. “Arpa deve spendere tutti gli strumenti possibili per accertarsi che l’ambiente, aria e acqua, siano protetti dal rischio di inquinamento. Come istituzione io devo lottare per garantire legalità e trasparenza”.

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