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Il 13 marzo 1998 si è aperto, presso l’aula bunker di Mestre, il processo contro i vertici di Enichem e Montedison per le morti causate dalle lavorazioni di CVM e PVC al Petrolchimico di Porto Marghera.
I capi d’imputazione sono reati commessi nei confronti dei lavoratori quali, per citare i più gravi, strage ed omicidio colposo; al momento dell’inizio del processo l’inchiesta ha accertato la morte per tumore di 149 operai del Petrolchimico e malattie di diversa gravità per circa altri 400, reati commessi contro l’ambiente e illeciti sugli scarichi che si possono riassumere con l’accusa di disastro ambientale.
Gli uomini e le aziende che negli ultimi trent’anni hanno avuto responsabilità a Porto Marghera, da Eugenio Cefis a Lorenzo Necci, da Montedison a Enichem, vengono messi finalmente sotto accusa. la richiesta di rinvio a giudizio firmata da Casson al termine delle indagini preliminari e’ un pesante atto d’accusa per omissioni, ritardi, inadempienze, disinformazione, crimini contro l’ecosistema e la terra di Venezia. Parti civili, le associazioni ambientaliste.
E gli imputati si difendono… Nel collegio di difesa siede il più grande e noto studioso italiano del nesso giuridico di causalità.
Ecco il grimaldello per scardinare l’impianto d’accusa. Il nesso causa/effetto. E Stella lo sa usare, le matricole di legge di mezza Italia lo imparano da lui, sui suoi testi.
In breve: nel sistema di civil law del diritto continentale per asserire una responsabilità penale si deve dimostrare inesorabilemente che quell’attività ha causato quel danno. Quella attività/quel danno.
Non bastano gli indizi, le evidenze epidemiologiche, né si può invocare la responsabilità solidale (come in altre parti del mondo), né ipotizzare concause (come altrove basta). Quella fabbrica, quei gas nocivi, quelle esalazioni, devono aver provocato quelle malattie. Quella fabbrica/quelle malattie.
Inoltre, per provare l’illecito penale bisognava che il comportamento tenuto dai dirigenti nell’arco di trent’anni collidesse con le leggi, anche quelle (vacue e vaghe, anzi, come le ha definite il presidente del tribunale di Venezia, “insufficienti”) di trent’anni fa.
Infine, l’accusa aveva l’onere di dimostrare che la contaminazione era resa possibile da negligenza, a qualsiasi livello, in qualunque fase di controllo.
In questa catena di prove che devono essere fornite dall’accusa, un anello ha ceduto.
Per questo, appestare una regione, avvelenare le acque, far sparire la vita dal mare, far ammalare i lavoratori e i cittadini… come recita la sentenza, “non è reato”.
Il presidente della 1/a sezione penale del tribunale di Venezia, Ivano Nelson Salvarani, spiega le motivazioni delle assoluzioni al processo Petrolchimico di Porto Marghera. Parla innanzitutto di “legislazione insufficiente”. Poi: “Il processo ha accertato che tutte le malattie causate dal cvm sono riconducibili alle elevate esposizioni risalenti agli anni ’50 e ’60 e dei primi anni ’70, quando si ignorava la tossicità del cvm, che fu evidenziata solo nel 1973”.
Per le morti dei lavoratori, “il fatto non sussiste”.
Per quanto concerne invece i crimini ambientali, “il fatto non costituisce reato”, perché tutt’ora non è scientifiacmente accertato che i livelli di inquinamento registrati nel sito siano così letali per la salute umana (nesso causa-effetto)…
“Si commenta da sola” è l’amara valutazione di Casson sulla sentenza.
Il prosindaco Bettin non ha trattenuto le lacrime. Poi è partito al contrattacco, annunciando per primavera una sorta di ‘tribunale Russell’ di esperti di respiro internazionale entrino nel merito della vicenda. “Per consegnare un diverso punto di vista sul piano politico, storico, e anche morale. E per entrare nel merito penale dell’assoluzione, mostrando l’errore di questa sentenza”.
“Un giorno infausto per l’affermazione del diritto alla salute”. Questo il secco giudizio di Greenpeace sul verdetto. L’associazione ha atteso il risultato del processo di primo grado all’esterno dell’aula bunker di Mestre con uno striscione con cui chiedeva Giustizia per Venezia. Alla lettura della sentenza sulle tute degli attivisti è stata apposta una fascia a lutto e il messaggio è diventato “In-giustizia per Venezia”.
”Ci sono morti a cui non si rende giustizia perche’ questo significherebbe mettere sotto accusa un intero sistema”. Commenta così il filosofo veneziano Massimo Cacciari.
“Sorpreso” e ”scandalizzato” per una sentenza ”clamorosa che sancisce un’assoluzione generalizzatà’ quando i ”danni alla salute e all’ambiente sono accertati”. L’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi.
”Evidentemente rispetto ai giudici, abbiamo vissuto in paesi diversi: c’è un paese dove non sono morti decine di operai per cancro e dove non ci sono stati gravissimi inquinamenti nella Laguna di Venezia”. Ironizza con l’amaro in bocca Ermete Realacci, presidente di Legambiente e deputato della Margherita in commissione Ambiente alla Camera.
Il più approfondito, preoccupante giudizio lo dà, a caldo, il WWF. “Una sentenza che farà storia. Una storia negativa e condizionante per altri processi che si dovranno ancora celebrare quali quelli di Brindisi e Mantova dove ancora una volta l’inquinamento delle industrie ha causato gravi danni alla salute e all’ambiente”. Lo ha detto l’avvocato Carlo Galli, vice presidente del WWF Italia. Mettendo il dito della piaga. E aprendo uno squarcio nel futuro delle speranze ambientaliste. L’inquinamento del ‘quartiere Lunetta’ di Mantova (denunciato da due consiglieri regionali lombardi, Monguzzi e Torre), il petrolchimico di Brindisi (caso esploso nella primavera 2000), e, aggiungiamo noi, la recente emergenza a Brescia per la contaminazione da PCB della falda acquifera, sono tutti casi analoghi. Sono casi di inquinamento ambientale diffuso, di dati epidemiologici che sbalzano, di picchi di malattie, di avvelenamento di acque, di luoghi, di morte riversata in fiumi, di morie di pesci, di animali selvatici.
Su tutti questi processi incombe ora la nuvola nera del petrolchimico di Mestre, ancor più spaventosa di quelle uscite dalle sue ciminiere.
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