Glossario del clima

Cos’è la desertificazione. Cause, effetti e numeri di una prossima emergenza ambientale

Dal Sahel alla Spagna, vaste aree del Pianeta sono esposte alla desertificazione, conseguenza del riscaldamento globale. Un’indagine su cause ed effetti.

Sui 7,7 miliardi di abitanti del Pianeta, circa 3 miliardi vivono nelle zone aride. Queste ultime, messe insieme, coprono il 46,2 per cento delle terre emerse. Basterebbero questi due numeri per rendersi conto di quanto il benessere della popolazione e dell’ambiente siano legati a doppio filo alle condizioni del suolo. Proviamo quindi a tracciare un bilancio del decennio Onu per i deserti e la lotta contro la desertificazione, giunto alla sua naturale scadenza a dicembre 2020.

Cos’è la desertificazione e quante persone coinvolge

Nel linguaggio comune, quando parliamo di desertificazione ci viene spontaneo immaginare immense distese di sabbia che guadagnano spazio. In realtà la definizione ufficiale è un po’ più ampia perché si riferisce al “degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, inclusi i cambiamenti climatici e le attività umane”.

Secondo l’Atlante globale della desertificazione, pubblicato nel 2018 dal Centro comune di ricerca della Commissione europea, oltre il 75 per cento del suolo globale è già in qualche misura degradato. Una percentuale, già altissima, che potrebbe arrivare al 90 per cento entro il 2050. Ogni anno vanno incontro a degradazione 4,18 milioni di chilometri quadrati, vale a dire circa la metà della superficie dell’Unione europea, soprattutto in Asia e Africa. Da qui al 2050, circa 700 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare a causa di questioni legate alla scarsità di risorse legate al suolo.

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Un agricoltore irriga il suo campo nel Mali © Tingju Zhu/Ifpri via Flickr

Lo stato della desertificazione nel mondo e in Italia

Il rapporto speciale su cambiamenti climatici e suolo, pubblicato nel 2019 dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), sfata un altro luogo comune: quello per cui la desertificazione sia un problema che riguarda esclusivamente l’Africa o le grandi steppe dell’Asia orientale e meridionale. È vero infatti che queste zone sono particolarmente vulnerabili, insieme al Medio Oriente. Ma non sono le uniche. I cosiddetti hotspot, cioè territori che tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila hanno assistito a un vistoso calo della produttività della vegetazione, si sono infatti estesi fino a coprire il 9,2 per cento delle zone aride globali, coinvolgendo mezzo miliardo di persone nel 2015.

Tra le zone calde l’Ipcc menziona per esempio il Cile, soprattutto le regioni di Coquimbo (dove l’84 per cento del suolo è soggetto a erosione), Valparaíso (57 per cento) e O’Higgins (37 per cento). Qui, però, l’adozione di tecniche agricole senza aratura, associata alla selezione di sementi adatte, ha portato incoraggianti miglioramenti nelle caratteristiche biologiche del suolo. Tra gli stati da tenere d’occhio c’è anche la Spagna, dove il rischio di desertificazione riguarda addirittura il 74 per cento del territorio, con picchi preoccupanti nella comunità autonoma valenzana e della Murcia, oltre che nelle isole Canarie.

Raramente se ne parla, ma il tema della desertificazione tocca da vicino anche l’Italia. Circa il 10 per cento del territorio del Belpaese è “molto vulnerabile” e un altro 49,2 per cento è “mediamente vulnerabile”, secondo i dati Ispra del 2011. La situazione è delicata soprattutto in Sicilia (dove il rischio desertificazione riguarda addirittura il 42,9 per cento del territorio), Molise (24,4 per cento) e Basilicata (24,2 per cento).

Le responsabilità dell’uomo sul degrado del suolo

La desertificazione e il degrado del suolo sono fenomeni sfaccettati e complessi. Se cerchiamo di risalire alle cause, da un lato troviamo la gestione del suolo (o, per meglio dire, l’incapacità di gestirlo in modo sostenibile); dall’altro lato, invece, i fattori legati al clima. Il minimo comun denominatore è sempre la pesante responsabilità dell’uomo.

Distruggere una foresta, per esempio, significa alterare l’equilibrio tra gli elementi nutritivi del terreno, estirpare le radici che lo mantengono saldo, renderlo più fragile di fronte agli squilibri meteorologici. Considerato poi che le piante regolano il ciclo dell’acqua, la deforestazione ha spesso come esito un aumento della siccità. Se si radono al suolo gli alberi o si appiccano incendi, in molti casi è per fare spazio ai pascoli o alle coltivazioni intensive. Che, a loro volta, sfruttano il più possibile i terreni, sacrificandone la biodiversità ed esaurendo ben presto le loro risorse.

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Il lago Ciad visto dal satellite durante una tempesta di sabbia © Jeff Schmaltz/MODIS Rapid Response Team/NASA/GSFC/Getty Images

Cambiamenti climatici e desertificazione, un legame complesso

La desertificazione è al tempo stesso causa e conseguenza dei cambiamenti climatici. Causa perché il suolo è un serbatoio di CO2 che, con l’impoverirsi della vegetazione, viene rilasciata in atmosfera contribuendo all’aumento delle temperature. Conseguenza perché, se le piogge diventano più scarse e le temperature più alte, il suolo è meno umido e fertile. Proprio la rarefazione delle precipitazioni ha fatto sì che l’estensione del deserto del Sahara aumentasse del 10 per cento nell’arco dell’ultimo secolo, andando a erodere soprattutto la fascia semi-arida del Sahel.

Con ogni probabilità, il riscaldamento globale accentuerà non solo il trend della desertificazione ma anche le sue conseguenze negative (come lo stress idrico, l’intensità dei periodi di siccità, il degrado degli habitat). Prendiamo come esempio lo scenario 2 elaborato dall’Ipcc, quello di “metà strada” in cui i progressi tecnologici e gli impegni della comunità internazionale si evolvono senza grosse variazioni – in positivo o in negativo – rispetto a oggi. In questo caso, se le temperature aumentassero di “soli” 1,5 gradi centigradi come auspicato dall’Accordo di Parigi, 951 milioni di persone si troverebbero esposte a questi impatti. Un numero che salirebbe fino a 1,15 miliardi con un riscaldamento globale di 2 gradi. Se invece si arrivasse a 3 gradi, come paventa l’Onu, le persone a rischio sarebbero 1,28 miliardi. Più della popolazione di Stati Uniti, Indonesia, Pakistan, Brasile e Nigeria messi assieme.

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Una tempesta di sabbia nel Somaliland © Oxfam east Africa/Flickr

151 stati sono colpiti da tempeste di sabbia

Tra i fenomeni naturali che stanno diventando sempre più frequenti, imprevedibili e pericolosi ci sono le tempeste di sabbia e polvere. 151 paesi del mondo ne sono colpiti direttamente, 45 sono stati classificati come sorgenti; si tratta soprattutto di zone aride a basse latitudini, ma in realtà – avverte l’Unccd – le tempeste si possono scatenare pressoché ovunque. Ed è quello che possiamo ragionevolmente attenderci per il futuro. Gravi le conseguenze per l’agricoltura, i trasporti, l’economia, la qualità di aria e acqua, e anche per la salute. Oltre a portare con sé i patogeni, infatti, le polveri a lungo andare danneggiano i polmoni e peggiorano i sintomi asmatici di cui già soffrono 334 milioni di persone, con un’incidenza del 14 per cento tra i bambini.

Il costo economico della desertificazione

15mila miliardi di dollari all’anno, su un’economia globale che – sostiene la Banca mondiale – vale circa 85.800 miliardi. Sarebbe questo il costo economico delle varie forme di degrado del suolo. Per avere un termine di paragone, è più del pil della Cina. A rendere note queste stime è stato Ibrahim Thiaw, segretario esecutivo dell’Unccd, interpellato dall’agenzia Inter press service. “In termini molto semplici, il messaggio è questo: investire nel risanamento dei terreni come via per migliorare le condizioni di vita delle persone, intervenire su quei punti deboli che contribuiscono ai cambiamenti climatici e diminuire i rischi per l’economia”, ha spiegato.

Un nuovo obiettivo: la neutralità nel degrado del suolo

Da tempo si parla di carbon neutrality o neutralità climatica, quella condizione di perfetto equilibrio in cui le emissioni di gas serra climalteranti in atmosfera sono pari a quelle che vengono assorbite dalle foreste, dal suolo e dagli oceani. È l’obiettivo per cui si sono formalmente impegnati Unione europea, Nuova Zelanda, Cina, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud. Una lista a cui ben presto si aggiungeranno anche gli Stati Uniti, ha promesso il presidente eletto Joe Biden.

Sulla stessa scia, l’Unccd ha coniato il concetto di neutralità nel degrado del suolo (Ldn): “uno stato in cui la quantità e la qualità delle risorse territoriali, necessarie a sostenere funzioni e servizi ecosistemici e a rafforzare la sicurezza alimentare, rimangono stabili o aumentano entro determinate scale temporali e territoriali ed ecosistemi”. In parole più semplici, si perde una certa superficie di terreni produttivi a causa della desertificazione, ma al tempo stesso se ne guadagna una superficie equivalente. Questo può avvenire grazie pratiche virtuose che intensificano la produzione di cibo, fibre ed energia senza depauperare ulteriormente il suolo o, meglio ancora, riportando in salute aree degradate.

Agenda 2030, lotta alla desertificazione, obiettivi di sviluppo sostenibile
La lotta contro la desertificazione fa parte del 15° Obiettivo di sviluppo sostenibile © United Nations department of global communications

Questo indicatore è stato adottato anche all’interno dell’Agenda 2030, il grande piano d’azione per le persone, il Pianeta e la prosperità lanciato dalle Nazioni Unite, articolato su 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Alla fine del 2019 – fa sapere l’Onu – 123 paesi del mondo hanno accettato la sfida della neutralità nel degrado del suolo, promettendo di tradurla in target più specifici. Tra di essi c’è anche l’Unione europea, intenzionata a raggiungerla entro il 2030.

Le strategie per combattere la desertificazione

Trattandosi di un fenomeno così vasto che coinvolge aree del Pianeta così eterogenee, va da sé che non esista una ricetta unica per combattere la desertificazione.

Il sogno per cui l’Unione africana si è spesa fin dal 2007 si chiama Grande muraglia verde: un corridoio verde che partirà dal Senegal e arriverà fino al Corno d’Africa, per una lunghezza totale di circa 7.800 chilometri e una larghezza di 15. Se tutto procederà secondo i piani, nel 2030 riuscirà a catturare 250 milioni di tonnellate di CO2 dall’atmosfera e creare 10 milioni di posti di lavoro, dando una sferzata alla prosperità di una delle zone più povere del mondo. Ma il “se” è d’obbligo, visto che l’opera è colossale e si procede ancora piuttosto a rilento.

La Banca mondiale esorta a scegliere un’agricoltura “amica del clima”, in cui l’aumento della produttività del suolo vada di pari passo con la sostenibilità nella sua gestione. Questo approccio si declina su una serie di pratiche concrete che vanno dall’agroecologia ai sistemi di irrigazione intelligenti, fino all’agricoltura conservativa. “Dobbiamo investire in soluzioni applicabili, trasformative e scalabili”, sostiene Ademola Braimoh, coordinatore delle politiche di agricoltura “climate-smart” in Africa per l’istituto. Ma un approccio simile – avverte – richiede notevoli investimenti finanziari, tecnologie avanzate e una solida guida da parte di governi e amministrazioni locali. In ogni caso, “le azioni volte a ridurre gli impatti negativi del degrado del suolo e della desertificazione senza dubbio devono andare di pari passo con interventi di contrasto alla povertà e lotta contro le disuguaglianze”.

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