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Ex bambini di strada guidano i turisti nella vita nascosta della capitale. Sono 11 milioni i bambini che in India vivono sui marciapiedi.
L’esempio di Cuba dimostra che uno sviluppo sostenibile non solo è possibile, ma addirittura indispensabile. Lo stato caraibico ha dovuto dire addio alla monocoltura dello zucchero ed è sopravvissuto grazie all’agricoltura biologica.
Il crollo dell’Unione Sovietica ha lasciato Cuba in una situazione economica disastrosa. Per riuscire a sfamarsi, gli abitanti hanno cominciato a coltivare piccoli orti sul balcone di casa mentre gli agricoltori, rimasti senza petrolio né pesticidi, hanno dovuto ricorrere a metodi tradizionali. È così che nel paese è avvenuta una vera e propria rivoluzione agricola.
Spesso si associa Cuba allo zucchero. Del resto fino al 1991, anno del crollo dell’Unione Sovietica, il paese ne è stato il maggiore esportatore; quella delle canne da zucchero era la coltivazione principale e si faceva largo uso di pesticidi. A partire da quell’anno, però, la situazione è cambiata: venendo a mancare il principale acquirente, ovvero il mercato sovietico – necessario anche per le importazioni di petrolio – l’economia cubana ha subito un grave contraccolpo ed è entrata in quello che viene eufemisticamente definito “periodo speciale”, aggravato da un inasprimento dell’embargo statunitense.
Senza petrolio (né soldi) non si poteva più importare il cibo di cui la popolazione cubana aveva bisogno. Di conseguenza i cittadini hanno dovuto affrontare una situazione ai limiti della carestia alimentare. Sempre più persone hanno iniziato a realizzare degli orti sui balconi e nei giardini, mentre gli agricoltori sono stati costretti a modificare i loro metodi di coltivazione: sono tornati ad arare i campi con mezzi trainati da buoi, ad avvicinarsi ai consumatori tramite la vendita diretta e a ricorrere a soluzioni naturali in sostituzione dei pesticidi. “Le barche venivano dall’Unione Sovietica cariche di prodotti chimici e di fertilizzanti. Improvvisamente non ne sono più arrivate, e le persone si sono chieste: abbiamo davvero bisogno di tutti quei pesticidi?”, racconta il proprietario di una fattoria biologica, Miguel Angel Salcines, al quotidiano britannico Guardian.
È proprio così che a Cuba ha preso piede l’agricoltura biologica. Oggi si coltivano piccoli appezzamenti di terreno – solitamente non più grandi di 40 ettari – senza l’utilizzo di pesticidi e i prodotti sono venduti a livello locale. Il governo ha supportato le iniziative dei cittadini attraverso la concessione di terreni in usufrutto e la creazione di un organismo che coordina e promuove lo sviluppo dell’agricoltura urbana sostenibile. In questo modo la popolazione è riuscita a sfamarsi e il paese ha iniziato a dipendere un po’ meno dalle importazioni. Certo, la transizione definitiva è ancora lontana e il processo rallenta man mano che la situazione economica migliora, senza contare che spesso le stesse colture biologiche si trovano su terreni dove in precedenza l’uso di pesticidi era massiccio. Tuttavia, uno studio pubblicato sulla rivista Monthly Review ha dimostrato che dal 1988 al 2007 il paese ha aumentato la produzione di verdura del 145 per cento, diminuendo al tempo stesso l’utilizzo di pesticidi del 72 per cento.
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“L’agricoltura biologica non è un miraggio, e la chiusura di metà delle raffinerie di zucchero ha rappresentato il primo passo verso la nostra indipendenza alimentare”, è l’opinione di Fernando Funes Monzote, che ha un dottorato in agronomia ed è figlio di uno dei più attivi sostenitori del biologico a Cuba. Pur nelle sue imperfezioni, la transizione del paese verso un nuovo modello di agricoltura è un esempio per le altre nazioni in quanto dimostra che lo sviluppo sostenibile e la sicurezza alimentare sono raggiungibili e strettamente collegati.
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