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Alberto Anfossi. Il futuro appartiene a tutti, costruiamolo “ripristinando” il nostro patrimonio
La Fondazione Compagnia di San Paolo si rinnova. Al centro c’è una visione olistica composta da tre pilastri: persone, cultura, pianeta. L’intervista al segretario generale Alberto Anfossi.
Il concetto di filantropia in Italia è ancora poco popolare. È più facile sentir parlare di beneficienza, di solidarietà. Filantropia è un termine che fa pensare a realtà e fondazioni straniere, perlopiù statunitensi. Le più note sono sicuramente la Bill & Melinda Gates Foundation e la Bloomberg Philanthropies. Eppure c’è una realtà nata a Torino che applica questo concetto da secoli. Dal 25 gennaio 1563, per la precisione. Un giorno che nel calendario cattolico è dedicato alla conversione di San Paolo sulla via di Damasco. Ed è proprio da questo giorno e da questo momento storico che prende il nome la Fondazione Compagnia di San Paolo.
Chi è Alberto Anfossi
Oggi è guidata dal segretario generale Alberto Anfossi, di recente nominato anche membro del Mission board for climate-neutral and smart cities, un think tank che ha come obiettivo quello di creare un percorso per aiutare cento città in Europa a raggiungere le emissioni nette zero. Tra queste, nove sono italiane. Torino inclusa. Una nomina, quella di Anfossi, che fa da ponte tra il settore pubblico e quello privato e che pone l’accento sulla necessità di integrare le risorse – limitate – messe a disposizione dalla Commissione europea. Il ruolo della filantropia e la conoscenza di Anfossi diventano, dunque, centrali. Parte da qui la conversazione col segretario generale della Compagnia di San Paolo. Un viaggio che parte da un passato lontano, ma che guarda con decisione al futuro.
Di cosa si occupa la Fondazione Compagnia di San Paolo e in che modo la sua finalità si intreccia con i 17 Sustainable development goals (Sdgs), gli Obiettivi di sviluppo sostenibile?
Da sempre ci occupiamo di temi ambientali e sociali, di sanità e di reti di prossimità, di housing, così come di beni e attività culturali. Crediamo nella partecipazione civica, nella ricerca e nell’innovazione. Nel 2019 abbiamo lavorato a una riorganizzazione interna cercando di guardare a ciò che succedeva fuori, intorno a noi e abbiamo capito che il paradigma dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite offrisse un’occasione ottima per riscrivere la nostra attività e renderla più comprensibile, più immediata, basata intorno a tre aspetti fondamentali: Persone, Cultura, Pianeta. Su questi pilastri abbiamo costruito quattordici missioni. Dal pilastro dedicato al pianeta, parte la missione “Proteggere l’ambiente”. Ogni missione contiene da uno a tre Obiettivi di sviluppo sostenibile, come fossero affluenti di un fiume. Se in passato il tema ambientale era poco presente, oggi abbiamo voluto dedicare una missione che rendesse più visibili le nostre attività.
La protezione dell’ambiente, del resto, è ormai in cima alle priorità anche di istituzioni e governi. Si è conclusa da poco la conferenza dedicata al clima (Cop27) e sta per cominciare quella sulla biodiversità. Che ruolo hanno per voi questi temi?
Per un soggetto come il nostro, che agisce localmente, è fondamentale essere consapevoli che si tratta di temi globali. Quindi va tenuto a mente che la soluzione a un problema globale deriva dalla somma di tanti comportamenti individuali, ma è anche vero che non si può risolvere un problema globale agendo solo localmente. Per questo abbiamo scelto di adottare l’approccio one health, dove tutto è interconnesso: il capitale naturale, la protezione dell’ambiente nella sua accezione tradizionale, che però è legata in modo inscindibile alla nostra salute, alla disponibilità di cibo, alla crescita economica – pensiamo al tema delle risorse naturali rinnovabili. La tutela della biodiversità è un elemento che va in questa direzione. Il suo declino, al contrario, si riverbera su altri temi come il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Per questo è necessario proteggere l’ambiente per il nostro benessere, quasi in modo “egoistico”. Uso questa parola in modo un po’ provocatorio, sperando sia in grado di coinvolgere una platea più ampia di persone.
Questo è anche il decennio delle Nazioni Unite dedicato al ripristino degli ecosistemi danneggiati dall’essere umano. Quali sono le iniziative che avete attivato a tal scopo?
La prima azione che abbiamo lanciato nel 2019, prima della riorganizzazione interna, andava in questa direzione. L’avevamo chiamata bando Restauro ambientale sostenibile in continuità con quello che era uno dei principali obiettivi della Fondazione: il restauro di monumenti e opere d’arte. Una scelta per affermare che anche il patrimonio naturale si deve restaurare cercando di ripristinare la biodiversità, riportandola in una condizione antecedente al degrado. Un progetto che raccontiamo spesso è quello delle Secche di Santo Stefano, il fondale marino che si trova al largo di Imperia, in Liguria. Qui si trovavano reti fantasma, cioè reti lasciate dai pescherecci che rappresentavano una minaccia alla biodiversità e un impoverimento della vita sottomarina. Con questa operazione abbiamo favorito la rimozione di queste reti fantasma e il ripristino di una biodiversità ricchissima. Con questo bando non abbiamo voluto attuare solo un intervento sul bene naturale, ma creare un momento di coinvolgimento della comunità locale affinché si prendesse cura del patrimonio naturale anche dopo l’intervento, altrimenti il rischio è che nel giro di qualche anno ci si ritrovi nella situazione di partenza. È importane che ci sia sempre qualcuno che si prenda cura dei luoghi che fanno parte di noi, della nostra vita, della nostra storia. Dobbiamo far leva sul senso di amore e di appartenenza che abbiamo nei confronti dei nostri borghi, del nostro territorio. Per andare nella direzione giusta, dobbiamo fare questo salto. L’anno scorso, invece, abbiamo lanciato il bando Simbiosi. Anch’esso va in questa direzione.
Di recente abbiamo anche aumentato il budget a disposizione, vista la qualità dei progetti che vanno dal ripopolamento di alcuni laghi con specie autoctone alla gestione di parchi periurbani o urbani. Quando parliamo di verde, infatti, pensiamo sempre alla montagna o a zone già molto “naturalizzate”, invece questo discorso vale ancora di più per territori urbanizzati dove ci sono edifici abbandonati che possono essere abbattuti per riportare quel luogo alla condizione di partenza.
Questi bandi fanno parte del processo di riorganizzazione che ci ha raccontato. Come sono stati accolti?
C’è stata una risposta che non era scontata, da un lato ci si poteva aspettare la partecipazione dell’amministrazione locale che punta sul ripristino di una zona senza magari contemplare nel progetto il coinvolgimento della cittadinanza. O al contrario, dell’associazione che coinvolge la comunità, ma che non ha la titolarità del bene. Quindi, pur non essendo facile, abbiamo avuto una buona risposta. Una difficoltà che abbiamo identificato è stata trovare l’associazione in grado sostenere un progetto di lungo periodo, magari importante dal punto di vista economico o complessa nella gestione e programmazione. Per questo abbiamo pensato di mettere in campo un’azione nuova, un bando che si chiama Re:azioni e che ha fra gli altri obiettivi quello di supportare con azioni di capacity building, cioè di rafforzamento organizzativo e strutturale, quelle associazioni ambientali piccole o di recente costituzione, che vogliono partecipare alle nostre attività. Per contribuire a costruire l’infrastruttura e rendere la società civile organizzata, più forte, più solida e quindi con un impatto maggiore.
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