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Faccia pulita, modi gentili, ma soprattutto una risata contagiosa. Andrea Pusateri, classe 1993, è inarrestabile.
In collaborazione con: Roberto Sposini
Ha solo 26 anni Andrea Pusateri, ciclista paralimpico italiano, ma parla con la profondità di un vecchio saggio. A tre anni e mezzo è stato vittima di un grave incidente che gli ha portato via la mamma e in cui lui ha perso una gamba, ma malgrado tutto non si è mai fermato.
Non crede nei limiti, né in quelli della vita né in quelli dello sport. I suoi nonni l’hanno cresciuto così e tutti nella sua famiglia l’hanno sempre incoraggiato a realizzare i suoi sogni, perché “nulla è impossibile se ci si crede davvero e si lavora per raggiungerli”. E così ha fatto.
Abbiamo incontrato Pusateri a Losanna, in Svizzera, sede del Comitato olimpico internazionale e città da cui riparte il progetto Toyota Start your impossible, di cui è ambasciatore.
“Ho sempre voluto essere un atleta e ce la sto facendo” ci racconta sorridendo. Infatti, prima di approdare nel ciclismo, ha fatto arrampicata, nuoto e tiro con l’arco. Poi è arrivato il suo grande amore: la bicicletta. Ogni weekend vedeva un suo amico correre nella squadra di Monza, dove abita, e si diceva “se ce la fanno gli altri con due gambe, non vedo perché non possa farcela anche io”.
Come ti sei sentito quando hai vinto la tua prima medaglia? La sensazione è ancora la stessa anche dopo tutte le gare che hai vinto?
La mia prima medaglia è stata una vittoria inaspettata. Era il 2014 ed è stato bellissimo perché mi ha gratificato di tutti i sacrifici fatti fino a quel momento. Ogni medaglia poi porta con sé sensazioni diverse, sono tutte belle a modo loro perché ognuna mi ricorda un momento particolare della mia carriera. La sensazione comunque è ancora la stessa, non ci si abitua mai. È sempre fantastico ed è un momento che ti gratifica di tutti i sacrifici fatti.
Ti raffiguri nel diamante, perché hai scelto proprio questo simbolo?
Diciamo che è un simbolo venuto per caso. È legato a me nel passato e a una trasmissione televisiva a cui ho partecipato. Ha un significato molto importante: in natura è uno degli elementi più difficili da rompere, il più duro a morire. Dopo l’incidente che ho avuto nel 2015 mi sono fatto un tatuaggio con questo simbolo. Mi vedevo in quest’ottica.
Hai molti tatuaggi e hai detto che rappresentano valori importanti per te. Hanno tutti una storia: ce ne racconti una?
Mi piacciono i tatuaggi in generale. Uno stile che mi piace molto è quello giapponese e infatti ho tutto il braccio e il petto in questo stile. Uno dei più importanti è questo sulle mani, “die hard”, “duro a morire”. L’ho fatto nel 2015 dopo un brutto incidente in allenamento dove ho rischiato di morire.
È un tatuaggio che rappresenta un momento storico della mia vita e rafforza ancora di più il significato di come sono io come persona.
Il primo è stato il sole che poi ho allargato e solo in un secondo momento ho iniziato con lo stile giapponese: ho un samurai perché è un guerriero, un drago perché nella mitologia è l’essere più potente che ci sia, poi l’Aida sul braccio destro che è un tribale di una tribù che mi piace moltissimo. Ora vorrei tatuarmi una tigre e poi una città incantata. Avrete capito che i tatuaggi mi piacciono proprio.
Fai parte del Toyota Team, com’è nata la voglia di partecipare a questo progetto e cosa volete trasmettere a chi vi segue?
Innanzitutto sono orgogliosissimo di fare parte del Toyota team insieme ad altri grandissimi campioni. Il progetto ha un messaggio molto forte, Start your impossible, che è la storia di tutte le persone di tutti i giorni. Qualsiasi cosa può sembrare insormontabile, a chiunque. Tutti noi dobbiamo superare ciò che ci sembra impossibile e per questo il messaggio del Toyota team è incredibilmente importante, è valido nello sport, ma anche nella vita di tutti i giorni.
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