Arabia Saudita: condannata un’adolescente a 18 anni di carcere per i suoi tweet

La condanna di un’adolescente per aver espresso sostegno ai prigionieri politici su X è l’ennesimo esempio della repressione di Riyadh contro qualsiasi forma di dissenso.

Secondo quanto riportato da Al Qst, una ong che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani nel paese del Golfo, il Tribunale penale specializzato saudita ha emesso la sentenza per Manal al-Gafiri ad agosto. Secondo quanto riferito, la ragazza al momento dell’arresto aveva 17 anni.

La sua condanna è l’ennesimo esempio delle dure ed estreme pene detentive inflitte dalle autorità saudite ai cittadini ritenuti colpevoli di “crimini informatici” per aver espresso insoddisfazione o critiche nei confronti del governo saudita negli ultimi sei anni sotto la guida de-facto del principe ereditario Mohammed Bin Salman.

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Il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman © Dan Kitwood/Getty Images

La persecuzione online in Arabia Saudita

Negli ultimi due anni sono diversi i casi di personalità perseguite e condannate da Ryad per aver espresso il proprio dissenso sui social. Secondo Amnesty International, nel 2022 sono stati 15 i casi di cittadini sauditi condannati dai dieci ai 45 anni di carcere per le loro attività online, oltre ad essere state eseguite 196 condanne a morte.

Tra i casi più eclatanti c’è quello di Salma al-Shehab, ricercatrice dell’Università di Leeds, che, nell’agosto 2022 si è vista aumentare da sei anni a 34 anni, per i suoi tweet, la sentenza la più lunga mai inflitta a una donna saudita per i contenuti postati online. Degna di nota anche la condanna a morte emessa lo scorso gennaio di Awad Bin Mohammed Al Qarni, docente universitario saudita diventato famoso per essere uno dei più importanti critici di Mohammed Bin Salman e detenuto dal 2017. 

L’ultima sentenza che ha destato scalpore è stata quella emessa contro il docente in pensione Muhammad al-Ghamdi, insegnante in pensione, è stato condannato a morte per aver pubblicato cinque tweet che criticavano la corruzione e le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. La condanna del docente è stata confermata dello stesso principe ereditario Mohammed Bin Salman, durante una lunga intervista su Fox News, dove ha definito le norme che hanno portato al verdetto “leggi sbagliate che non può cambiare”.

Sportwashing vs diritti umani

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Lewis Hamilton ha espresso perplessità nel continuare a correre in Formula 1 in Arabia Saudita © Dan Mullan/Getty Images

Le sistematiche e continue violazioni dei diritti umani continuano di pari passo con gli investimenti da parte del regime di ripulitura della propria immagine, attraverso lo sportwashing. E questi investimenti sono draconiani: a partire dal 2021 Ryadh ha speso almeno 6,3 miliardi di dollari in contratti sportivi, più del quadruplo del precedente importo speso nei sei anni precedenti. Secondo l’analisi del Guardian, negli ultimi due anni e mezzo l’Arabia Saudita ha investito miliardi dal suo fondo di investimento pubblico (Pif), spendendo nello sport una cifra che ha cambiato completamente il golf professionistico e trasformato il mercato internazionale dei trasferimenti per il calcio.

L’estate 2023 a livello calcistico è stata monopolizzata dal calciomercato della lega saudita: con un investimento di 939 milioni di euro, la Roshn saudi league si è aggiudicata la presenza di campioni provenienti dai campionati europei, tra cui Neymar, Benzema e Kanté, oltre ad aver ingaggiato l’ex ct dell’Italia Mancini, come nuovo commissario della nazionale. Il calcio saudita è diventato così accattivante da essere trasmesso addirittura in chiaro su La7.

Le problematiche etiche dello sportwashing, però, sembrano porsele solo i tifosi, come quelli del Newcastle, squadra della Premier league di proprietà della Pif, e pochi sportivi come Lewis Hamilton, che ha espresso le sue perplessità nel continuare a correre la Formula 1 in Arabia Saudita. 

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