Popoli indigeni

Quando le aree protette rischiano di violare i diritti umani. La denuncia di Survival international

Aumentare l’estensione delle aree protette potrebbe aumentare anche la sofferenza e la distruzione degli spazi naturali. La denuncia di Survival International.

Le aree protette, come suggerisce il nome, dovrebbero proteggere le zone su cui si estendono, salvaguardando ecosistemi unici sul nostro Pianeta. Ma cosa succede quando le strategie adottate ottengono il risultato opposto, violando i diritti umani delle comunità che ci vivono e di riflesso mettendo a rischio quegli stessi territori?

L’ong Survival international, che da anni si occupa di tutelare i popoli indigeni, ha denunciato una situazione che definisce una “grande bugia verde” che coinvolge le aree protette: molte politiche di tutela dell’ambiente violano i diritti umani di chi vive in armonia con la natura, di fatto mettendo a rischio ogni sforzo per la loro conservazione.

L’idea di una “conservazione fortezza” – ovvero di dover rimuovere i locali dalle loro terre per poter proteggere la natura – è coloniale. È dannosa per l’ambiente ed è fondata su idee ecofasciste e razziste che, discriminando le persone, decidono quali contano di più e quali invece valgono meno e possono quindi essere sfrattate e impoverite, attaccate o uccise.

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Il contesto delle aree protette

Le preoccupazioni di Survival international nascono in seguito all’adozione della Strategia per la biodiversità da parte della Commissione europea. Con questo piano, i leader mondiali vorrebbero accordarsi per trasformare il 30 per cento della Terra in aree protette entro i prossimi dieci anni.

In molte parti del mondo, una “Area protetta” (Pa) è un luogo in cui alle persone che per generazioni l’hanno abitato e considerato casa loro, improvvisamente non viene più permesso di viverci o di usarne l’ambiente naturale per sfamare le proprie famiglie, per raccogliere piante medicinali o per frequentare i luoghi sacri. Il modello è quello che ispirò la creazione dei primi parchi nazionali del mondo, negli USA del XIX secolo, realizzati nelle terre sottratte ai Nativi Americani. Molti parchi statunitensi ridussero in poveri senza terra proprio i popoli che avevano letteralmente creato e alimentato quei paesaggi ricchi di “wilderness”.

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Il tipo di conservazione che finora è stato promosso e sostenuto finanziariamente dall’Ue all’estero è motivo di grande preoccupazione per l’ong. La creazione di aree come i Parchi nazionali in Africa, in Asia e in America Latina è stata spesso associata all’accaparramento di vaste aree di terra (una pratica conosciuta anche con il nome di land grabbing), allo sfratto dei suoi abitanti, alla perdita dei mezzi di sussistenza, all’imposizione di brutali controlli paramilitari sull’uso delle risorse naturali da parte delle popolazioni locali e a gravi violazioni dei diritti umani. E “se da una parte i benefici che queste aree protette portano alla conservazione non sono ancora stati dimostrati, i conflitti tra le agenzie di conservazione e i popoli locali e indigeni non fanno che moltiplicarsi”, fa notare l’ong.

Inoltre, “la bozza del Quadro globale per la biodiversità, il nuovo accordo mondiale per la protezione della natura, sostenuto dalla Commissione europea non contiene misure efficaci per proteggere le terre, i diritti ed i mezzi di sussistenza dei popoli indigeni e di altre comunità che dipendono dalla terra, ed è pertanto incompatibile con gli accordi internazionali esistenti, come la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni”, denuncia Survival.

Come ormai dimostrano numerosi studi scientifici, questi popoli sono i migliori custodi dell’ambiente, ed esiste un legame diretto e vitale tra diversità culturale e biodiversità. Non è un caso che l’80 per cento della biodiversità del pianeta si trovi proprio nei territori indigeni.

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Alcuni membri della tribù Turkana minacciati da cambiamenti climatici in aree protette
La bozza del Quadro globale per la biodiversità non contiene misure efficaci per proteggere le terre, i diritti ed i mezzi di sussistenza dei popoli indigeni e di altre comunità che dipendono dalla terra © Christopher Furlong/Getty Images

Leader locali e funzionari europei hanno discusso di nuovi approcci alla conservazione

Ad oggi sono più di 300 milioni le persone appartenenti alle comunità più vulnerabili e rispettose dell’ambiente, che rischiano di subire drammatiche conseguenze. E gli effetti sull’ambiente sono quelli che non ci si vorrebbe aspettare: non rispettare le comunità locali, che abitano in armonia con il proprio territorio da centinaia di anni, oltre ad essere una violazione dei diritti umani mette a rischio lo scopo stesso per il quale vengono istituite queste aree.

La proposta è destinata a diventare il più grande accaparramento di terra della storia. Potrebbe ridurre milioni di persone a vivere in povertà senza terra, senza oltretutto contribuire a proteggere la biodiversità.

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Per questo Survival ha co-organizzato un evento unico nel suo genere, una conferenza online dal titolo What’s in the Eu biodiversity strategy for indigenous peoples and local communities?, in cui, per la prima volta, indigeni e attivisti colpiti dagli effetti della conversione delle loro terre in aree protette hanno avuto la possibilità di raccontare ai decisori politici europei cosa pensano della conservazione.

L’evento si è tenuto sulla piattaforma Zoom il 19 novembre, ma si può rivedere sulla pagina Facebook di Survival. Hanno partecipato, tra gli altri, Pranab Doley, attivista del popolo Mising, Kaziranga, India; Mordecai Ogada, conservazionista, Kenya; Delcasse Lukumbu, attivista congolese e membro di Lucha Rdc, il movimento di cittadini congolesi nella Repubblica Democratica del Congo; Guillaume Blanc, storico ambientale, specializzato in Africa contemporanea e docente alla Università di Rennes 2, Francia.

Hanno preso la parola a turno, rispondendo e ponendo domande agli stessi funzionari europei presenti, tra cui Herbert Lust, vicepresidente e direttore di Conservation international Europe; Chantal Marijnissen, capo dell’Unità ambiente, risorse naturali, acqua alla Direzione generale per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo della Commissione europea e Luisa Ragher, capo della Divisione diritti umani dello European external action service (Eeas).

I popoli indigeni sono i migliori custodi della natura, eppure sono privati dei loro diritti

L’80 per cento della biodiversità del Pianeta si trova in territori gestiti da comunità indigene e il loro rapporto con l’ambiente è qualcosa che supera i confini e le barriere che il mondo industrializzato ha eretto intorno a quello naturale.

Vengo da una comunità che dipende dall’ambiente.

Hindou Oumar ou Ibrahim, una donna indigena della società pastorale Mbororo del Chad

Ascoltare le testimonianze dirette di chi ogni giorno lotta per la tutela dei propri territori fa capire una cosa: queste comunità non vivono “in” un ambiente, ma vivono “con” l’ambiente. I ritmi della natura, il rispetto e la celebrazione di ciò che li circonda sono i valori cardine su cui si fondano le loro culture, così diverse tra loro, eppure così armoniche.

Una comunità locale che vive nelle Ande
Queste comunità non vivono “in” un ambiente, ma vivono “con” l’ambiente © Dan Kitwood/Getty Images

E sentire che malgrado i loro continui sforzi, ancora oggi non vengano adeguatamente inclusi nei processi decisionali quando si parla di strategie di conservazione, sembra assurdo e anche un po’ controproducente. “Quando sono arrivate le compagnie che hanno cercato di sfruttare il parco del Virunga, è stata la popolazione locale la prima a ribellarsi. Per questo bisogna coinvolgerle, solo così si potranno costruire soluzioni davvero sostenibili”, racconta fiero Delcasse Lukumbu, attivista congolese e membro di Lucha Rdc, il movimento di cittadini congolesi nella Repubblica Democratica del Congo.

Per questo motivo “bisogna cambiare le strategie e le politiche di conservazione e delle zone protette. Bisogna integrare quelli che sono i diritti dei popoli autoctoni nella gestione delle zone e coinvolgerli nelle decisioni” perché nessuno meglio di loro conosce i bisogni di quelle aree, sottolinea Joseph Itongwa, Coordinatore regionale degli ecosistemi forestali in Africa centrale.

Noi locali siamo i guardiani della biodiversità. Sono migliaia di anni che acquisiamo competenze per proteggere l’ambiente.

Hindou Oumar ou Ibrahim, una donna indigena della società pastorale Mbororo del Chad

Le raccomandazioni dei popoli locali

L’intervento di Hindou Oumar ou Ibrahim, una donna indigena della società pastorale Mbororo del Chad, ha racchiuso in quattro punti tutto ciò che manca nelle attuali politiche di conservazione.

  1. Rispettare i diritti dei popoli autoctoni in modo molto più esteso, partendo dai diritti umani nelle politiche e nelle azioni volte a combattere i cambiamenti climatici.
  2. Riconoscere le conoscenze e le competenze dei locali. Le comunità indigene sono in prima linea per proteggere l’ambiente e sono le prime che hanno a che fare con gli effetti dei cambiamenti climatici. Questo deve essere riconosciuto a livello nazionale nelle politiche per la protezione degli ecosistemi. I parchi gestiti dai locali sono molto più ricchi rispetto a quelli gestiti da militari armati.
  3. Assicurare una partecipazione piena ed efficace dei popoli autoctoni – comprese le donne, le persone con disabilità e i giovani – nei processi decisionali. Bisogna farlo a livello internazionale, nazionale e locale.
  4. Garantire un accesso diretto ai finanziamenti per i popoli autoctoni, che superi le barriere linguistiche e burocratiche che non permettono loro di usufruire, ad esempio, degli aiuti europei.

Un riassunto tagliente, che sottolinea quanto come umanità siamo ancora lontani dalla creazione di politiche realmente sostenibili, a livello sociale quanto ambientale.

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