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Un tempo il ghiaccio marino proteggeva l’isola sulla quale sorge il villaggio di Kivalina, in Alaska. Ora che il ghiaccio si sta sciogliendo, il mare la sta lentamente cancellando dalle carte geografiche. Ma gli abitanti resistono, e con loro le tradizioni.
Respiri profondamente. I polmoni si gonfiano, riempiendosi d’aria gelida. Così fredda che stordisce. Ma il fiato di Jennifer è caldo; il cappuccio bordato di pelo incornicia il suo volto. Come gli altri abitanti di Kivalina, lei non vuole abbandonare questo remoto villaggio in Alaska – la regione probabilmente più inospitale degli Stati Uniti – ad un centinaio di chilometri dal Circolo polare artico. Nonostante sia divenuto simbolo del clima che cambia.
I cambiamenti climatici si stanno verificando proprio sotto i nostri occhi. Temo che un giorno Kivalina sarà scomparsa. Ma stiamo combattendo perché ciò non accada. Perché le nostre tradizioni si mantengano vive.Alexis Awley, residente a Kivalina
Il villaggio di Kivalina sorge all’estremità di una barriera corallina che si snoda per circa dodici chilometri fra una laguna e il mare dei Ciukci, senza strade che lo colleghino alla terraferma. Un tempo era protetto dal ghiaccio marino ma quest’ultimo, per colpa del riscaldamento globale, sta diminuendo sempre di più, lasciando le coste alla mercé dei fenomeni meteorologici estremi e dell’erosione costante causata dalle onde. Senza contare che il livello del mare aumenta di anno in anno, proprio a causa dell’innalzamento delle temperature e dello scioglimento dei ghiacci. Se non si farà nulla per intervenire, si prevede che nel 2025 l’isola verrà inghiottita dall’oceano.
Per questo nel 2008 gli abitanti di Kivalina hanno intentato la prima causa per riscaldamento globale degli Stati Uniti, accusando la Exxonmobil ed altre compagnie petrolifere, che sull’isola estraggono petrolio, zinco e ferro con evidenti conseguenze sull’ambiente, di aver emesso i gas serra responsabili dei cambiamenti climatici che stanno mettendo in ginocchio la comunità. Hanno chiesto alle aziende un risarcimento di 400 milioni di dollari (circa 360 milioni di euro), cifra che sarebbe necessaria per spostare il villaggio in un’altra località – scelta che comunque i residenti non vorrebbero compiere. Nel 2009, però, la corte distrettuale cui il caso è stato sottoposto ha stabilito che la questione fosse di natura politica e non legale, pertanto non potesse essere risolta in tribunale.
A Kivalina vivono, distribuite in una novantina di case, più o meno 400 persone di etnia Iñupiat. Il governo federale ha cercato di insinuarsi nella loro cultura, senza riuscirci. “Parlo inglese, sono andato a scuola, indosso vestiti alla moda americana, mangio alcuni dei loro cibi. Ma resto pur sempre Iñupiat dalla testa ai piedi”, racconta Enoch Adams, cacciatore di balene. Il sostentamento del suo popolo si basa sulla caccia e sulla pesca, ma queste attività sono diventate meno proficue poiché la distribuzione delle specie ittiche e le abitudini migratorie di caribù, foche e balene sono mutate con l’aumento delle temperature. L’Artico si scalda più velocemente del resto del Pianeta, secondo gli scienziati del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). L’Alaska, in particolare, si sta scaldando due volte più velocemente del resto degli Stati Uniti, tanto che il permafrost non è più un terreno perennemente ghiacciato.
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“Solitamente, le politiche nazionali si occupano di un disastro quando è già avvenuto”, sottolinea al Washington Post la ricercatrice Christine Shearer, autrice del volume Kivalina: a climate change story. “Ma nel caso degli stravolgimenti climatici, agire prima è imperativo”. La popolazione indigena resiste, ma lancia un appello alla comunità internazionale: bisogna invertire la rotta. È l’unico modo per salvare Jennifer, Enoch, Harold e la sua nipotina, Russell e Rhonda. Persone di cui vi abbiamo parlato, volti che potete ammirare negli scatti del fotografo Joe Raedle. Esseri umani che negli anni hanno imparato a vivere in una località ostile, arrivando a conoscerla come le proprie tasche, ma ora corrono il rischio di perderla per sempre. Uno scrigno di tradizioni che non deve finire in fondo al mare.
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