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Le paludi mesopotamiche rischiano di prosciugarsi per colpa della siccità e di una cattiva gestione delle risorse idriche. Abbiamo conosciuto gli attivisti che in Iraq lottano per impedire che il paese rimanga senza fiumi.
La prima volta che Salman Kharillah ha assaggiato l’acqua del fiume Tigri aveva 15 anni. Per evitare di diventare il target di una milizia, aveva deciso di lasciare la scuola e trovarsi un lavoro. Erano gli anni tra il 2005 e il 2006, caratterizzati da alti livelli di violenza fra le truppe che spadroneggiavano in Iraq. Per gli adolescenti iracheni non vi erano molte alternative: “Dovevi evitare di farti uccidere quando rientravi da scuola e, se non facevi parte di una milizia, rischiavi di essere rapito o costretto a farne parte”, ricorda. Dopo poco tempo, Salman ha iniziato a lavorare per l’associazione Nature Iraq come assistente di laboratorio d’analisi a Baghdad e nel giro di un anno ne è diventato il responsabile.
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Oggi, questo trentenne iracheno lavora come coordinatore della campagna di advocacy Save the Tigris and Iraqi marshes, lanciata nel 2012 da numerose associazioni irachene e supportata dall’organizzazione non governativa Un ponte per…, con l’obiettivo di attirare l’attenzione internazionale sul patrimonio e sulle risorse idriche dell’Iraq. Ogni sei mesi, Salman si reca nelle paludi mesopotamiche a controllare il livello dei fiumi Tigri ed Eufrate e assaggiarne le acque. “Se non posso andare regolarmente, provo l’acqua di Baghdad”, racconta.
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Quando lo incontriamo, è una torrida giornata di fine giugno. Alle prime luci dell’alba, la temperatura ha già sfiorato i 40 gradi. Baghdad è ancora sonnecchiante, ma un gruppo di giovani attivisti attende l’arrivo di un pulmino. Hanno tra i 17 e i 29 anni e fanno parte di svariate organizzazioni della società civile irachena. La destinazione del gruppo è il Festival delle paludi di Chibayish, località a 400 chilometri a sud della capitale, nel cuore della mezzaluna fertile. “Andiamo a vedere le nostre bellissime paludi e le conseguenze delle dighe sull’ambiente e sulla popolazione locale”, dice Salman.
Tra di loro ci sono membri dell’Iraqi social forum, di Sport against violence e della rete di attivisti iracheni, costruita intorno all’Iraqi civil society solidarity initiative. Ci sono avvocate per i diritti umani, studentesse della facoltà di lingue e d’ingegneria. Ci sono fotografi, giornalisti, artisti e registi. Il loro obiettivo? Difendere l’acqua e l’ambiente.
“I nostri politici non considerano l’acqua una priorità nazionale”, spiega Ali Alkharhi, attivista, fondatore dell’associazione Humat Dijlah ed esperto di questioni idriche. “Da una parte abbiamo un problema di gestione interna, come l’assenza di moderni metodi d’irrigazione o lo spreco d’acqua in colture intensive. Dall’altra parte vi è un problema di debolezza nelle relazioni internazionali. Il 70 per cento dell’acqua è controllato da Iran e Turchia. I nostri vicini gestiscono le dighe e gli affluenti, cambiandone la direzione come meccanismo di ricatto. Il governo iracheno è così debole da non essere in grado di porre la questione dell’acqua come priorità nella sua agenda internazionale”, spiega l’attivista.
L’assenza di politiche idriche, la siccità e la costruzione di dighe imponenti a monte, come quella di Ilisu in Turchia e quella di Daryan in Iran, rischiano di ridurre drasticamente la portata delle acque del Tigri e dell’Eufrate. Ad essere minacciati, però, non sono solo i fiumi bensì le paludi mesopotamiche, inserite nel patrimonio dell’Unesco insieme alle città sumere di Ur, Eridu e Uruk nel 2016, grazie alle campagne degli attivisti iracheni. Senz’acqua, le paludi rischiano di prosciugarsi e i Madaan, la popolazione locale degli Arabi delle paludi, saranno costretti a migrare.
“Ogni anno perdiamo 11 milioni di metri cubi d’acqua a causa dell’evaporazione. Se ci aggiungiamo il riscaldamento globale, la salinità del suolo e l’assenza di politiche idriche, fra dieci anni i bufali d’acqua dolce saranno estinti e i Madaan obbligati a lasciare queste terre”, spiega Jassim al-Asadi dell’associazione Nature Iraq.
Dello stesso avviso è anche Ismaeel Dawood, attivista iracheno per i diritti umani e responsabile advocacy Un ponte per… “Il problema è culturale. Dovremmo cambiare i metodi d’irrigazione, proteggere gli animali e le piante e mettere al centro l’acqua. Se perderemo le paludi mesopotamiche, rinunceremo ad un patrimonio ambientale e culturale unico al mondo”.
Per sollevare l’attenzione sull’acqua in Iraq, lo scorso maggio le associazioni ambientaliste hanno lanciato una campagna virale sui social network arabi con l’hashtag Iraq without rivers. Il prossimo obiettivo è un forum sull’acqua della Mesopotamia, previsto dal 5 al 7 aprile 2019 a Sulaymaniyah, nel nord dell’Iraq.
“Oggi, l’acqua è utilizzata come strumento politico da parte dell’Iran e della Turchia contro i curdi, i siriani e noi iracheni. Quest’acqua è di tutti. La popolazione ha bisogno che venga usata come strumento di pace sostenibile e non per l’egemonia politica, causa di future guerre e conflitti”, afferma Salman.
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