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Attraverso l’obiettivo di sole fotografe, la prima edizione della Biennale della fotografia femminile arriva a Mantova per dare spazio all’esperienza e alla sensibilità delle donne per raccontare la realtà in modo inclusivo.
“Dove sono le foto scattate dalle donne?”. In un momento storico in cui la parità di genere non è ancora normalità e lo sguardo sul mondo è spesso filtrato da un obiettivo maschile, è importante più che mai dare spazio all’esperienza e alla sensibilità delle donne per rappresentare e raccontare la realtà in modo inclusivo. Con questo obiettivo, e provando a rispondere alla domanda, arriva la prima Biennale della fotografia femminile.
La fotografia femminile è poco rappresentata e spesso stereotipata. Questa è l’occasione per dare la giusta visibilità a importanti progetti di eccezionali fotografe da tutto il mondo.
A Mantova si svolgerà quindi la prima edizione della biennale di fotografia in cui le mani dietro ad ogni scatto sono femminili. Ma non solo, femminile è anche la presenza dietro alla sua organizzazione, alla lettura dei portfoli, ai workshop, alla regia. Si tratta di una manifestazione fatta da donne, ma non solo per le donne. Perché non vuole essere esclusiva, ghettizzante o elitaria: il suo fine è invece quello di prendersi il posto – e lo spazio – che troppo spesso ancora viene tolto ai lavori di reportage fotografici realizzati da donne in riviste, giornali, concorsi e mostre.
Finché i talenti e le passioni delle donne non valgono tanto quanto quelli degli uomini, c’è bisogno di spazi.Nausicaa Giulia Bianchi, fotografa
La biennale espone e affronta anche l’attuale sistema di valori patriarcale, ormai assorbito senza distinzioni di genere. E invita ad abbracciare una visione globale e inclusiva che permetta di raggiungere l’uguaglianza a ogni persona, a prescindere dal sesso con cui si identifichi. Non a caso il tema scelto per questa prima edizione è quello del lavoro. Il lavoro è infatti qualcosa che tocca tutti, coinvolge ogni persona nella sua presenza o nella sua assenza. Ed è un macro tema che permette di mostrare anche le sue sfaccettature e declinazioni che a volte rimangono più nascoste: dallo sfruttamento – anche minorile –, al gender gap, agli aspetti sociali e ambientali.
Il risultato sono dodici mostre imperdibili che raccontano le declinazioni del lavoro realizzate da altrettante fotografe internazionali e pluripremiate che con empatia e senso critico ci mostrano il loro sguardo sul mondo.
Erika Larsen è una dei migliori fotografi di National Geographic conosciuta per i suoi reportage in cui racconta culture e tradizioni che mantengono uno stretto legame con la natura. Il suo lavoro Quinhagak è stato realizzato infatti in Alaska, nell’omonima cittadina in cui la fotografa ha passato molto tempo per documentare gli effetti del riscaldamento globale e dove, grazie anche ai forti legami creati con le persone, è tornata più volte.
Abbiamo addosso una memoria ancestrale, che costantemente ci ricorda che noi facciamo parte dell’ambiente e l’ambiente fa parte di noi.Erika Larsen, fotografa
Rena Effendi, fotografa originaria dell’Azerbaigian conosciuta per la sua documentazione fotografica delle persone, delle loro vite, tradizioni e culture, con il suo lavoro mostra la vita nelle campagne della Romania, come una “favola agricola” di una volta che riesce ancora a sopravvivere in alcune zone della Transilvania congelate nel tempo.
In questo mondo antico, definito da sistemi di credenza tradizionali e dal rispetto per l’ambiente, non si cammina su un prato di erba alta prima di tagliarla, le vacche e i cavalli trovano la via di casa lungo sentieri fangosi del villaggio e l’acqua del fiume serve per il mulino, il lavaggio e la distillazione dell’alcol.Rena Effendi, fotografa
Le “cenerentole” della fotografa italiana Annalisa Natali Murri sono le hijras del Bangladesh: transessuali che una volta erano rispettate e venerate come simbolo di prosperità e buona sorte, mentre oggi sono escluse dalla società, senza identità, diritti e dignità.
Probabilmente se il governo ci riconoscesse e ci concedesse opportunità di lavoro non avremmo bisogno di prostituirci e la nostra vita sarebbe migliore.Hijra di Dhaka, Bangladesh
Il lavoro della fotografa tedesca Sandra Hoyn è un reportage che parla di sfruttamento di minori nell’ambito della disciplina del muay thai in Thailandia. Foto in bianco e nero che mostrano la sofferenza, la violenza e la pressione che porta la boxe ai bambini nel paese asiatico.
La fotografa e documentarista Daro Salakauri racconta con il suo lavoro sull'”oro nero” lo sfruttamento dei minatori in Georgia nella più grande riserva di manganese nel paese, quella della città di Chiatura. Oltre alle condizioni e orari di lavoro disumani, le sue immagini mostrano anche il tema dell’inquinamento dell’aria e dell’ambiente che causano le miniere nella zona.
Il progetto fotografico di Betty Colombo racconta il rapporto osmotico tra uomo e natura: come uno ferisce l’altro ma anche come entrambi possano essere guariti. La serie di fotografie presenta infatti il parallelismo tra un’operazione chirurgica ai polmoni e il recupero di una foresta distrutta dagli incendi, che ci dà ossigeno.
La storia incredibile raccontata dalla fotografa documentarista Giulia Bianchi è quello delle prime donne prete cattoliche che, disobbedienti e impegnate, sfidano la tradizione e incarnano la visione della chiesa del futuro: inclusiva.
In un’era storica in cui è così facile pensare che non abbiamo nessun potere, le donne prete ricordano che invece ognuno di noi può scegliere di provarci.Giulia Bianchi, fotografa
“Vorrei” è il lavoro della fotografa italiana Claudia Corrent che esplora il panorama del lavoro e del futuro dei giovani in Italia, tra disoccupazione, desideri e ambizioni.
Attraverso la fotografia riesco a far parlare i ragazzi, la uso come modello di inclusione.Claudia Corrent, fotografa
La foto di Eliza Bennet di una mano cucita è quella che è stata scelta per rappresentare i temi e i concetti della biennale. Il cucito è infatti uno dei lavori tradizionalmente associati alla donna e quello del ricamo alla femminilità, ma per rompere questa idea la fotografa ha usato del filo per ricreare una mano consumata dal lavoro, per rappresentare gli effetti invisibili dei lavori tradizionalmente considerati “da donne”, come quelli domestici e di cura, che ancora oggi vengono poco riconosciuti e rispettati.
A fianco dei lavori personali delle fotografe ci sono esposizioni più trasversali, come la mostra collettiva intitolata “La nuova donna: narrazioni di genere nello sviluppo della fotografia femminile cubana” a cura di Aldeide Delgado che ha fondato e dirige il Women photographers international archive (Wopha), un’organizzazione che promuove ed educa sul ruolo della figura femminile in fotografia. La mostra ripercorre la storia della fotografia cubana e in che modo questa ha contribuito a creare e modellare l’immaginario del paese. Dietro gli scatti esposti ci sono le artiste e fotografe Niurka Barroso, Anna Mia Davidson, Kattia García, María Eugenia Haya, Sonia Cunliffe e Gilda Pérez. C’è poi la selezione della fotografa e ricercatrice iconografica Donata Pizzi che ripercorre l’evoluzione del lavoro visto dalle fotografe italiane nel corso degli anni: dal lavoro come fatica alle campagne per l’aborto, le manifestazioni e le lotte femministe.
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Molti i workshop in programma (uno anche con la famosa fotografa italiana Letizia Battaglia), i concorsi per donne fotografe professioniste e amatoriali come il premio Musa, le conferenze e le proiezioni che riempiranno gli spazi storici della città di Mantova grazie alla presenza di artiste e personalità del settore da ogni paese del mondo. La Biennale della fotografia femminile, ideata dall’associazione La Papessa e di cui LifeGate è media partner, inizia il 5 marzo ed è visitabile ogni venerdì, sabato e domenica fino al 29 marzo. Un’occasione per permetterci di conoscere il valore di chi sta dietro l’obiettivo che ci mostra il mondo.
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