Il senso della Cina per la transizione energetica, dentro e fuori i suoi confini

Per la prima volta, in Cina il calo delle emissioni di CO2 sono correlate alla crescita di energia rinnovabile. Che viene finanziata anche all’estero.

Per la prima volta nella sua storia recente, la Cina ha fatto registrare un calo delle emissioni di CO2 mentre la domanda di energia ha continuato a salire. È un passaggio che potremmo definire epocale: nel paese che guida la classifica mondiale delle emissioni climalteranti, l’energia pulita ha cominciato a coprire l’intera crescita dei consumi o gran parte di essa. Non per effetto di una crisi economica, né di lockdown pandemici come successo in passato. Ma perché il sistema energetico cinese sta cambiando davvero. È in transizione.

È un evento che ha fatto discutere le community, gli ambienti che si occupano di clima, ma che meriterebbe maggiore attenzione anche al di fuori dei circuiti specialistici. Perché segna un punto di svolta: non si tratta solo di un’evoluzione tecnologica, ma della conferma che la transizione energetica è in atto e il suo centro di gravità si sta spostando.

Inoltre, la Cina sta sovvenzionando anche la transizione all’estero: attraverso il piano di sviluppo Belt and road initiative (Bri), a lungo derisa per il suo impatto climatico elevato, è stata nettamente dominata per la prima volta da progetti eolici e solari. Tuttavia, le centrali a carbone finanziate negli anni precedenti continuano a entrare in funzione.

Un impianto fotovoltaico nel 2009 costava il 223 per cento in più rispetto alla costruzione di una centrale a carbone © Kevin Frayer/Getty Images

L’accelerazione della Cina: fotovoltaico da record, eolico in espansione

Secondo una recente analisi pubblicata da Carbon Brief, nel primo trimestre del 2025 le emissioni di CO2 cinesi sono diminuite dell’1,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e dell’1 per cento considerando gli ultimi dodici mesi. Ma ciò che più conta non è tanto l’entità del calo, quanto la sua origine: per la prima volta, le emissioni non scendono a causa di una recessione economica o di una pandemia, ma grazie alla crescita delle energie rinnovabili.

Negli ultimi dodici mesi, la produzione da fonti pulite (solare ed eolico) e a basse emissioni (nucleare) ha coperto l’intera nuova domanda di energia, rendendo superfluo l’aumento della produzione da fonti fossili (mentre l’energia idroelettrica è rimasta stabile). La riduzione delle emissioni di CO2 della Cina nel primo trimestre del 2025 è dovuta a un calo del 5,8 per cento nel settore energetico. Mentre la domanda di energia elettrica è cresciuta complessivamente del 2,5 per cento, si è registrato un calo del 4,7 nella produzione di energia termoelettrica, principalmente a carbone e gas. In altre parole: la Cina ha prodotto più energia, ma lo ha fatto senza più bruciare carbone. In particolare, la quantità media di carbone necessaria per generare ogni unità di elettricità nelle centrali elettriche a carbone è diminuita dello 0,9 per cento su base annua: un risultato impensabile fino a pochi anni fa.

Le cifre parlano da sole. Nei primi tre mesi del 2025, la Cina ha installato 36 gigawatt (GW) di impianti fotovoltaici su tetto. Per fare un confronto: in Italia, al termine del 2024, la capacità installata totale – tra impianti a terra e su tetto – era di circa 37 GW. In un solo trimestre, e solo con il fotovoltaico residenziale, la Cina ha fatto quello che l’Italia (considerando ovviamente le diverse proporzioni) ha fatto in vent’anni. E se si considera il totale del solare, il dato sale a 60 GW in tre mesi.

In parallelo, si è registrato un balzo nella produzione da fonte eolica: il sorpasso delle rinnovabili sulle fossili è ormai evidente nei dati trimestrali, e secondo gli analisti di Carbon Brief il trend continuerà per tutto il 2025. Le emissioni di CO2 della Cina potrebbero essere prossime a raggiungere non solo un picco storico, ma addirittura potrebbe aprirsi un periodo di declino strutturale.

La Cina finanzia anche la transizione all’estero

L’analisi di Carbon Brief è stata accolta con entusiasmo nei circoli climatici ma fuori da queste “bolle”, la notizia è passata quasi inosservata. Eppure, come scrive il giornalista Ferdinando Cotugno nella sua newsletter Areale, questa “è davvero la traccia di futuro più importante che abbiamo e ci permette di ricordarci che la transizione energetica sta avvenendo”. Perché si tratta di una trasformazione strutturale sempre più fondata su scelte politiche e investimenti strategici.

Certo, la Cina ha spinto sull’acceleratore delle rinnovabili già da tempo, ben prima dell’escalation commerciale con gli Stati Uniti. Tuttavia, la guerra commerciale innescata da Washington ha rafforzato questa tendenza: i dazi e le restrizioni imposte hanno spinto Pechino a consolidare la strategia di autonomia energetica, puntando ancora di più sulle fonti domestiche per ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili. Nel prossimo futuro, questa dinamica potrebbe accelerare ulteriormente, portando la Cina a rafforzare la propria leadership industriale nelle tecnologie energetiche verdi e a estendere la sua influenza nei mercati globali delle rinnovabili.

Attraverso la Belt and road initiative (Bri), l’imponente progetto infrastrutturale con cui la Cina estende la propria influenza economica nel mondo, Pechino sta esportando la transizione energetica ben oltre i suoi confini. Negli ultimi anni, la strategia della Bri ha spostato il focus dagli investimenti in petrolio e carbone verso impianti eolici e solari nei paesi partner. Dal 2022 al 2023, il 68 per cento degli investimenti energetici cinesi all’estero è stato destinato a progetti di energia rinnovabile, secondo una recente analisi del Global development policy center della Boston University.

Questo dato rappresenta un punto di svolta che distingue l’attuale fase della politica cinese da quella degli anni passati. Mentre un tempo la Bri era sinonimo di nuove centrali a carbone costruite nei paesi in via di sviluppo, oggi la Cina sta finanziando e costruendo impianti eolici e solari in misura maggiore rispetto a Stati Uniti ed Europa messi insieme. Accade nei Balcani, in Africa, nel Sudest asiatico: la transizione energetica globale sta procedendo anche perché la Cina la sta materialmente costruendo fuori dai propri confini. Questo aspetto rimane spesso sottovalutato nei dibattiti occidentali, dove l’attenzione tende a concentrarsi sulle emissioni interne del gigante asiatico.

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In Cina, le emissioni di CO2 sono scese per la prima volta grazie alle energie rinnovabili © Carbon Brief

Una transizione fondata su lavoro poco pagato?

Ma la rapidità e l’efficacia della transizione cinese pongono anche interrogativi etici. Parte del successo del settore delle rinnovabili in Cina – soprattutto nella produzione di pannelli solari e batterie – è dovuto a costi di produzione molto competitivi, in parte legati a salari più bassi rispetto ai paesi occidentali. Occorre tuttavia evitare letture semplicistiche: negli ultimi decenni la Cina ha compiuto progressi enormi nella riduzione della povertà e oggi gran parte della popolazione ha accesso a livelli di consumo e benessere crescenti. Il costo medio della vita nelle grandi città è ormai comparabile a quello di alcune capitali europee di fascia medio-bassa e, sebbene in alcune aree industriali persistano bassi salari, questi nella maggior parte dei casi risultano comunque superiori al fabbisogno minimo mensile. Il vero nodo etico, quindi, non è tanto il livello dei salari, ma la trasparenza e le condizioni di lavoro lungo la filiera, soprattutto nelle regioni periferiche e meno controllate.

Come sottolineato da un’inchiesta pubblicata dalla divulgatrice ambientale Hannah Ritchie, i costi contenuti della tecnologia cinese sono resi possibili anche da un modello industriale basato su economie di scala, turni di lavoro prolungati e, in alcune situazioni documentate, sfruttamento e lavoro forzato, soprattutto nelle regioni occidentali come lo Xinjiang. La competizione globale sui costi delle tecnologie verdi rischia quindi di alimentare una transizione energetica che, pur essendo ecologicamente sostenibile, non sempre garantisce equità e tutela dei diritti umani. Si parla infatti di una transizione che dovrebbe essere “giusta” nel senso europeo del termine, ovvero inclusiva e rispettosa dei diritti sociali lungo tutte le catene di fornitura. È un tema che l’Occidente dovrà affrontare con urgenza se vuole costruire una propria filiera industriale alternativa, fondata non solo sull’efficienza economica, ma anche su principi di giustizia sociale e ambientale.

Altro aspetto critico riguarda l’uso del carbone nell’industria metallurgica e, dunque, nella produzione di acciaio: al di fuori del settore energetico, infatti, le emissioni da carbone sono aumentate del 3,5 per cento. La China coal association, la principale organizzazione dell’industria carbonifera in Cina, prevede che l’uso del carbone nell’industria siderurgica e dei materiali da costruzione diminuirà, mentre si prevede che il consumo di carbone nell’industria chimica continuerà a crescere.

Il futuro si scrive nel 2025

Insomma, nonostante la buona notizia, per la Cina permangono sfide significative. La prima è raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015, quando l’economia asiatica si era prefissata di ridurre l’intensità di CO2 (ovvero le emissioni per unità di pil) del 60-65 per cento rispetto ai livelli del 2005: al momento, infatti, secondo i dati di Carbon Brief la Cina ha ridotto la propria intensità per prodotto del 5 per cento rispetto al livello del 2020 (altre fonti parlano di 7,8), ben al di sotto del target del 18 per cento previsto per il periodo 2020-2025.

Tutti sono che il 2025 sarà un anno decisivo. La traiettoria di decarbonizzazione potrebbe consolidarsi, oppure rallentare. Tutto dipenderà anche dal nuovo piano quinquennale che la Cina pubblicherà nel 2026. Quel piano conterrà gli obiettivi energetici e climatici fino al 2030, e sarà il banco di prova per verificare se la frenata delle emissioni è solo temporanea, o l’inizio di una nuova fase.

Nel frattempo, anche in Europa si registrano segnali di fiducia. Teresa Ribera, vicepresidente della Commissione europea, ha recentemente ribadito che anche l’Ue è vicina a raggiungere i propri obiettivi climatici, ma il passo successivo richiederà una visione ancora più chiara e ambiziosa al 2040. Se l’Europa vuole davvero giocare un ruolo da protagonista nella transizione ecologica, deve guardare con attenzione all’esempio della Cina, che sta conquistando la leadership industriale e tecnologica nelle rinnovabili a una velocità impressionante – mentre, allo stesso tempo, gli Usa ripiegano. Perché la transizione energetica non è una possibilità lontana, ma una rivoluzione industriale già in corso. La domanda non è più se avverrà: la domanda è se vogliamo esserne parte o restare spettatori di un cambiamento che non aspetta nessuno.

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