
“Fare la cosa giusta” è il motto di Ritter Sport. Siamo stati a Stoccarda, presso lo stabilimento di Waldenbuch, per farci raccontare la sua storia.
Non c’è dibattito o articolo sulle vicende economiche globali che non nomini il Fondo monetario internazionale (Fmi). Ecco cos’è, cosa fa, chi lo finanzia.
Quando leggiamo notizie sulle drammatiche conseguenze della crisi greca sulla popolazione, stime sui sussidi che vengono erogati alle fonti fossili nel mondo o previsioni sugli effetti di Brexit, c’è sempre un nome che ritorna: quello del Fondo monetario internazionale (Fmi). Facciamo un passo indietro, per ripercorrere le tappe della sua storia, comprendere il suo ruolo e i suoi poteri e sentire le ragioni di chi lo critica.
Per risalire alla nascita del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e della Banca Mondiale bisogna tornare indietro fino al 1944. Alla conferenza di Bretton Woods, il presidente degli Stati Uniti Roosvelt e gli Alleati si riunirono per delineare il nuovo ordine economico internazionale che sarebbe sorto dalle ceneri della seconda guerra mondiale. E decisero che al neo-istituito Fondo Monetario Internazionale doveva spettare il compito di assicurare la stabilità delle valute mondiali, fissando una parità tra oro e dollaro a cui sarebbero state poi collegate tutte le altre valute (il cosiddetto gold exchange standard, abolito nel 1971 da Richard Nixon). Inoltre, avrebbe fornito prestiti di breve durata ai paesi che si trovavano in condizioni di difficoltà monetaria.
Tramontata l’epoca della convertibilità del dollaro in oro, cambia anche il ruolo del Fondo monetario internazionale. Oggi, il suo compito principale è quello di concedere prestiti agli Stati membri, o di ristrutturare il debito estero dei paesi in via di sviluppo. In cambio, ai paesi debitori viene richiesto di sottoscrivere i cosiddetti “piani di aggiustamento strutturale”, con cui si impegnano a intervenire sulle proprie politiche economiche (e non solo) per risultare più affidabili agli occhi del Fmi. Di solito questi piani richiedono di svalutare la moneta nazionale, liberalizzare alcuni settori, raggiungere il pareggio di bilancio, privatizzare le imprese a partecipazione statale, tagliare la spesa sociale (la cosiddetta austerity).
Insieme alla Banca centrale europea e alla Commissione europea, il Fondo monetario internazionale compone la cosiddetta troika, quell’organismo di controllo informale che si è occupata dei piani di salvataggio dei paesi in crisi all’interno della zona euro.
Il capitale del Fondo monetario internazionale è messo a disposizione dai suoi membri, che pagano una quota sulla base del loro peso nell’economia globale. Sulla base dell’ultima riforma, l’ammontare complessivo delle quote è pari a 477 miliardi di SDR (in italiano, diritti speciali di prelievo): si tratta della valuta del Fondo monetario internazionale, calcolata facendo una sorta di “comune denominatore” a partire da un paniere di valute nazionali.
In quanto a riserve auree, il Fondo monetario internazionale ne detiene 2.814,1 tonnellate. È quindi ai primi posti nella classifica globale, dopo Stati Uniti (8.133,5 tonnellate) e Germania (3,378,2 tonnellate). Ma il suo regolamento limita severamente la possibilità di usare questo denaro. Solo con una maggioranza dell’85 per cento degli Stati membri, infatti, il Fmi può vendere oro o accettarlo come pagamento dagli Stati membri, ma non può acquistarlo o prender parte ad altre transazioni. A dicembre 2010 il Fmi ha portato a termine la vendita di 403,3 tonnellate d’oro (circa il 12 per cento delle sue riserve), una decisione presa per accumulare liquidità nei momenti più difficili della crisi globale.
Gli organi più importanti del Fondo monetario internazionale sono due: il Consiglio dei governatori e il Consiglio esecutivo. Il primo è a composizione plenaria e, salvo casi eccezionali, si riunisce una volta all’anno. Il Consiglio esecutivo invece è formato dai ventiquattro direttori esecutivi ed elegge il direttore operativo, che assume il ruolo di presidente. Cinque membri appartengono a Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito, mentre gli altri sono eletti dal Consiglio dei governatori.
Sulla base delle quote si ripartisce il potere di voto. Ciò significa che il peso degli Stati Uniti e dei Paesi europei è preponderante soprattutto per le decisioni più importanti, che richiedono (a seconda dei casi) una maggioranza dei due terzi o dei tre quarti dei voti.
Da Bretton Woods sono passati oltre settant’anni. Ed è inevitabile che un’istituzione del genere, legata a doppio filo ai mutevoli equilibri politici ed economici internazionali, debba adeguarsi. Ma i cambiamenti non sempre sono facili. Lo dimostrano le traversie della riforma delle quote, delineata nel 2010 ma rimasta nel limbo fino a dicembre 2015, quando è arrivata l’approvazione del Congresso americano, fortemente voluta da Christine Lagarde. Con la riforma, i paesi avanzati devono cedere il 6,05 per cento delle loro quote, che vengono redistribuite dando maggiore peso a quelli che fino a qualche anno fa erano considerati paesi emergenti. Brasile, Cina, India e Russia entrano così nel novero dei dieci membri più importanti, insieme a Stati Uniti, Giappone, Francia, Germania, Italia e Regno Unito. Nel frattempo, lo yuan entra ufficialmente nel paniere di valute di riferimento mondiali, al pari di dollaro, yen, euro e sterlina.
Dopo le dimissioni di Dominique Strauss-Kahn, travolto nel 2011 da uno scandalo a sfondo sessuale (poi archiviato), come direttrice del Fondo monetario internazionale è stata scelta Christine Lagarde. Avvocato, è esponente del partito repubblicano francese ed è stata ministro dell’Economia, dell’industria e dell’impiego del governo transalpino tra il 2007 e il 2011; oggi è all’inizio del suo secondo mandato alla guida del Fmi. È nota come una delle più celebri donne al comando di paesi e organizzazioni internazionali: Forbes l’ha messa al sesto posto nella sua classifica, guidata da Angela Merkel.
Per il suo ruolo estremamente delicato negli equilibri politici ed economici internazionali, e per le sue politiche di stampo neoliberista, il Fondo monetario internazionale negli anni ha suscitato più di una polemica. Uno dei critici più celebri è Joseph Stiglitz, ex-dirigente della Banca mondiale e premio Nobel per l’Economia nel 2001. Nel suo saggio “La globalizzazione e i suoi oppositori”, punta infatti il dito contro la sua opera di divulgazione (o, in molti casi, imposizione) del predominio del libero mercato e del cosiddetto Washington Consensus.
Altri fanno notare come, pur schierando un esercito di analisti, il Fmi non sia stato in grado di evitare lo scoppio della crisi dei subprime, che ha fatto sprofondare l’economia globale in una crisi storica. In realtà, se n’era accordo l’allora capo-economista Raghuram Rajan, che già nel 2005 aveva denunciato in un paper gli squilibri del sistema finanziario statunitense. Ma il suo appello era caduto nel vuoto.
Anche diverse ong si sono unite al coro di critiche nei confronti del Fmi e delle sue politiche. Tra le più schierate c’è Attac, impegnata per una maggiore regolamentazione dei mercati, la lotta ai paradisi fiscali, la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo, la Tobin Tax e così via. “Who, Imf, Banca Mondiale e Unione Europea hanno sancito nuove regole economiche globali al di fuori di qualsiasi dibattito democratico: la maggior parte dei negoziati internazionali che riguardano il commercio o le regolamentazioni finanziarie avviene lontano dalle persone”, si legge nella sua dichiarazione d’intenti.
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