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Abbiamo chiesto a Giulia Innocenzi, autrice del libro Tritacarne e del programma televisivo Animali come noi, cosa ha scoperto nel corso di un anno e mezzo di indagini negli allevamenti italiani.
Gli allevamenti intensivi, oltre ad aver effettivamente ultimato il processo di trasformazione dell’animale in macchina, stanno danneggiando gravemente il pianeta. Secondo il rapporto Livestock’s Long Shadow, pubblicato nel 2008 dalle Nazioni Unite, sono infatti la causa principale dei cambiamenti climatici (generano il 51 per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale). L’Italia è nota per il suo comparto agroalimentare di eccellenza, ma come sono davvero gli allevamenti italiani? Ne abbiamo parlato con Giulia Innocenzi, giornalista, autrice del libro Tritacarne e del programma televisivo Animali come noi, che andrà in onda su Rai 2 a febbraio.
Quando sei diventata vegetariana e cosa ti ha spinto a prendere questa decisione?
Sono diventata vegetariana circa cinque anni fa, dopo aver letto il libro Se niente importa, di Jonathan Safran Foer, che racconta le aberrazioni degli allevamenti intensivi negli Stati Uniti. La mia prima reazione è stata quella di smettere di mangiare il pollo, dopo aver appreso come vengono trattati gli animali e qual è l’effettiva qualità della carne che mangiamo, successivamente ho eliminato anche gli altri animali dalla mia alimentazione.
Come sono gli allevamenti in Italia? Cosa hai imparato con la tua esperienza sul campo?
Contrariamente a quanto si possa pensare ci sono molte analogie tra gli allevamenti statunitensi e quelli italiani. Negli anni Cinquanta il modello degli allevamenti intensivi, basati sulla massimizzazione della produzione di carne ad un prezzo sempre inferiore, è stato importato nel nostro Paese. Attualmente oltre l’80 per cento dei prodotti di origine animale in commercio in Italia proviene da allevamenti intensivi. Ho visto capannoni con 20mila polli, maiali stipati in recinti così stretti da non riuscire neppure a girarsi e costretti a vivere nelle le proprie feci e a mangiarle.
“L’industria zootecnica esercita la propria influenza politica sapendo che il proprio modello di business dipende dal fatto che i consumatori non hanno la possibilità di vedere”, scrive Safran Foer. È per questo che hai scritto Tritacarne? Per consentire di vedere cosa accade in questi allevamenti.
Assolutamente sì, Tritacarne è il resoconto di un anno e mezzo d’indagini eseguite in tutta Italia all’interno degli allevamenti intensivi e dei macelli e vuole denunciare quello che succede in questi luoghi. Per aumentare la consapevolezza dei consumatori sarebbe opportuna anche un’apposita etichettatura che chiarisca se l’animale proviene da allevamenti intensivi. Proprio per raggiungere questo obiettivo sto collaborando con un gruppo di parlamentari per elaborare un pacchetto di proposte normative.
Quali sono, a tuo avviso, le conseguenze più gravi prodotte dagli allevamenti intensivi?
Innanzitutto le conseguenze sugli animali, non possiamo accettare che degli esseri viventi vengano trattati peggio di sottoprodotti industriali. Non dimentichiamo inoltre che questi allevamenti sono vere e proprie bombe ecologiche destinate ad esplodere: è ormai noto infatti che rappresentano la principale causa di emissioni inquinanti al mondo. La situazione è destinata a peggiorare ulteriormente perché nei paesi in via di sviluppo il consumo di carne è in costante crescita. È necessario ripensare la nostra alimentazione, mangiamo troppa carne. Dobbiamo pensare anche al fenomeno della antibiotico-resistenza, ovvero la resistenza di alcuni batteri agli antibiotici. L’eccessivo ricorso a questi farmaci ha prodotto batteri estremamente resistenti, in Italia circa il 70 per cento degli antibiotici viene destinato agli animali da allevamento.
Quali sono le pratiche peggiori in questi allevamenti a cui assistito con i tuoi occhi?
In un allevamento in Lombardia ho visto maiali costretti a compiere l’aberrazione più grande per ogni specie animale: il cannibalismo. Negli allevamenti intensivi questi animali, intelligenti ed estremamente curiosi, vengono ammassati uno sopra l’altro, il forte stress e la noia li spingono a mangiarsi le estremità fra di loro, come code e orecchie. Il paradosso è che, anziché imporre agli allevatori di aumentare lo spazio destinato ai maiali, la legge consente loro di tagliare agli animali la coda, senza anestesia. Questa dovrebbe essere una misura straordinaria invece è la prassi e, nonostante questo, gli atti di cannibalismo persistono.
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