Guerra in Ucraina, son passati due anni dall’invasione russa

Mezzo milione tra morti e feriti e quasi 500 miliardi di dollari di danni. Il bilancio di due anni di combattimenti, nell’anniversario dell’invasione.

Ultimo aggiornamento del 26 febbraio 2024 alle 10:30

Quasi mezzo milione tra morti e feriti. Più di diecimila civili uccisi, tra cui 579 bambini. E ancora: 10 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case e quasi 18 milioni che necessitano di assistenza umanitaria. È il bilancio catastrofico, e ancora parziale, di oltre 700 giorni di guerra in Ucraina. Due lunghissimi anni durante i quali le bombe e i colpi di artiglieria hanno causato danni per almeno 486 miliardi di dollari, fra città e infrastrutture distrutte, palazzi rasi al suolo e ospedali a pezzi.

E poi ci sono i danni ambientali: in questi due anni di combattimenti sono state emesse almeno 150 tonnellate di CO2, una quantità equivalente a quella prodotta in un arco di tempo simile da uno stato come il Belgio. 

Nei giorni che segnano il triste anniversario dell’inizio dell’invasione russa, avvenuta il 24 febbraio 2022, la fine del conflitto è ancora lontana. La guerra in Ucraina è arrivata a uno stallo, sia sul campo di battaglia, sia sul fronte della diplomazia. E mentre l’Unione europea approva il tredicesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, che aggiunge circa duecento individui ed entità nella lista dei soggetti sanzionati, Mosca festeggia la presa di Avdiivka, una città a quindici chilometri da Donetsk, caduta dopo quattro mesi di combattimenti, che per ragioni strategiche e simboliche ha la stessa importanza di Bakhmut visto che è considerata un importante snodo logistico. 

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Kiev bombardata © Ed Ram/Getty Images

Ma in questi giorni non ricorre solo l’anniversario dell’invasione russa: il 20 e 21 febbraio sono stati infatti dieci anni dalle proteste di piazza Maidan, a Kiev, dove tutto ha avuto inizio. La gente aveva iniziato a scendere in strada nel novembre del 2013 per protestare contro la decisione del governo di sospendere la preparazione della firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea. E il 20 febbraio 2014 le violenze arrivano al culmine: negli scontri tra i manifestanti e la polizia antisommossa muoiono cento persone. Poi, il 21 febbraio, si registra il fallimento dell’accordo tra il presidente Viktor Janukovich e i capi dell’opposizione, che prendono così il potere a Kiev. Da lì la situazione precipita e il primo marzo la Duma russa autorizza Putin a inviare le truppe in Ucraina per proteggere i cittadini russofoni. Da lì il referendum, l’annessione della Crimea e l’escalation. Il resto è storia.

Guerra in Ucraina: le perdite fra le truppe

E anche se i funzionari occidentali ritengono che Putin non abbia una strategia chiara a medio e lungo termine, e si consolano dicendo che “le sanzioni stanno colpendo duramente il complesso militare russo”, l’affanno dell’esercito ucraino è evidente: mancano uomini e munizioni, e la presa di Avdiivka ha inferto un altro duro colpo alle truppe di Kiev: secondo il New York Times, durante quest’ultima avanzata dei russi, l’Ucraina avrebbe perso tra gli 850 e i mille soldati. Ma non è andata meglio a Mosca, che in quegli scontri avrebbe perso sedicimila uomini, secondo le rivelazioni pubblicate su un canale Telegram dal soldato e blogger militare russo Andrej “Murz” Morozov, che si è poi tolto la vita dopo aver subito forti pressioni da Mosca per quel suo post così critico sulla guerra in Ucraina. 

Dall’inizio del conflitto, le perdite sono state colossali per entrambi gli schieramenti: il servizio russo della Bbc e il giornale indipendente Mediazona hanno confermato l’identità di circa quarantacinquemila soldati russi morti in Ucraina dal 24 febbraio 2022 ad oggi: erano perlopiù ragazzi originari di Rostov, Sverdlovsk, Baschiria, Chelyabinsk e dalla repubblica di Buriazia. Ma i numeri reali sono sicuramente più alti e le stime variano molto a seconda delle fonti: i funzionari della Difesa statunitense parlano di circa 315mila soldati russi uccisi o feriti (praticamente, l’87 per cento del totale degli uomini con cui Mosca aveva iniziato l’invasione). Da parte ucraina, invece, si registrerebbero circa settantamila morti e cento-centoventimila feriti. 

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ufficializzato il numero delle perdite per la prima volta il 25 febbraio, in risposta alle “cifre gonfiate” riportate dalla Russia: secondo lui, i morti ucraini sarebbero trentunomila, mentre quelli russi sarebbero 180mila; non ha volutamente menzionato i feriti per non facilitare le operazioni russe. Tuttavia, secondo i funzionari statunitensi, i numeri dei soldati caduti in battaglia sarebbero molto più alti. 

Se nei primi mesi dei combattimenti Kiev poteva contare su truppe motivate e sui veterani del Donbass, ora è sempre più difficile trovare uomini da arruolare. Nei mesi scorsi Zelensky aveva infatti annunciato la necessità di mobilitare altre cinquecentomila persone. Ma la richiesta ha incontrato resistenze politiche ed è in stallo in Parlamento. A ciò si aggiunge la carenza di munizioni: si stima che Europa e Stati Uniti producano congiuntamente cinquecentocinquantamila proiettili d’artiglieria all’anno. Ma all’Ucraina ne servirebbero molti di più, visto che ne spara due milioni. 

Le difficoltà di Kiev e la rimonta della Russia

A ciò si aggiunge la questione degli aiuti occidentali: se a inizio febbraio l’Unione europea è riuscita ad approvare un nuovo pacchetto da cinquanta miliardi di euro per Kiev, negli Stati Uniti i fondi rischiano di non ottenere l’approvazione del Congresso a causa dell’opposizione di una parte del Partito repubblicano.

E se all’inizio in molti si illudevano che Kiev potesse davvero ribaltare la situazione e addirittura ripristinare i confini precedenti, ora primeggiano gli scettici. C’è chi si chiede se l’Ucraina (e i suoi partner occidentali) non stiano perdendo la guerra. Secondo un report del Consiglio europeo per le relazioni estere, solo il dieci per cento degli europei di dodici Paesi ritiene che l’Ucraina vincerà; il doppio, invece, si aspetta una vittoria russa. 

Le sanzioni infatti non impediscono alla Russia di continuare a vendere petrolio e ottenere microchip di fabbricazione estera da utilizzare nelle armi prodotte per la guerra in Ucraina. Dopo aver voltato le spalle ai suoi partner europei, Mosca ha trovato nuovi alleati tra i paesi del Sud del mondo e si è avvicinata sempre di più alla Cina. Come se non bastasse, Putin ha appena annunciato che il bombardiere strategico portamissili Tu-160M, capace di trasportare testate nucleari, può entrare in servizio nelle forze armate russe.

Zelensky, che ha invitato l’omologo Usa Joe Biden e il candidato repubblicano Donald Trump a visitare l’Ucraina affinché vedano con i loro occhi “questa tragedia”, inizia a perdere consensi: l’Istituto internazionale di sociologia di Kiev ha indicato, nel dicembre 2023, un crollo di oltre venti punti del grado di fiducia nel presidente, passato dall’84 per cento di un anno prima al 62 per cento, mentre il comandante dell’esercito Valery Zaluzhny (il cui grado di fiducia è accreditato all’88 per cento) è stato di recente rimosso dalla carica di capo delle forze armate ucraine.

Putin vuole la vittoria della guerra in Ucraina, anche alle urne

Dall’altra parte delle barricate e del confine, in Russia, Putin si sfrega le mani. E si prepara a vincere le elezioni presidenziali di marzo, in una corsa solitaria dalla quale sono stati eliminati tutti i candidati potenzialmente pericolosi per la sua rielezione, pure Aleksej Navalny, che evidentemente continuava a rappresentare una minaccia forte anche dal carcere dove è stato ucciso. Fra intimidazioni, propaganda, repressioni, controllo dei mezzi di comunicazione e voto elettronico sospettoso, la vittoria dell’attuale presidente russo alle urne è scontata. 

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Il presidente russo Vladimir Putin © Kremlin Press Office/Handout/Anadolu Agency via Getty Images

“L’Occidente, a mio avviso, ha già praticamente esaurito tutte le sue possibilità di pressione”, ha commentato Boris Bondarev, che prima dell’inizio dell’invasione lavorava come consigliere della missione russa presso le Nazioni Unite a Ginevra. Dopo l’inizio della guerra, è stato l’unico diplomatico russo a dimettersi pubblicamente. “Ciò che rimane è il linguaggio della forza. Ma a quanto pare, si ha paura di parlare questo linguaggio. Nessuno vuole correre rischi e tutti pregano che Putin rinsavisca all’improvviso e decida di fare pace con tutti. Ma ciò non accadrà”.

Nel frattempo il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, in un forum Ansa, ha ribadito la necessità di arrivare a delle trattative che portino a una pace giusta: “Noi lavoriamo per la pace e per impedire che ci sia una vittoria della Russia, noi vogliamo una pace giusta che significa il rispetto del diritto internazionale e la liberazione del territorio occupato dai russi. Ci auguriamo che si possa arrivare a una trattativa, ma non possiamo rinunciare alla difesa della libertà e del diritto internazionale. Non siamo in guerra con la Russia”.

Ma le dichiarazioni che arrivano da Mosca non sono rassicuranti. Secondo l’ex presidente Dmitrij Medvedev, attuale vice segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale, le truppe russe potrebbero spingersi addirittura fino a Kiev, “se non ora, in un’altra fase dello sviluppo di questo conflitto. Riguardo a Odessa, ha detto, posso semplicemente dire: Odessa, torna a casa. Questa è la nostra città, russa e della Russia”.

Gli aiuti sul campo ucraino

E mentre sulle città ucraine continuano a piovere le bombe, c’è chi lavora senza sosta per aiutare la popolazione. Cesvi è stata la prima organizzazione italiana a essere arrivata a Bucha, nell’aprile 2022, nonché una delle prime a essere intervenuta in Ucraina per sostenere i civili. Irma Gjinaj, capo missione per Cesvi in Ucraina, si trova insieme al suo staff vicino alla linea del fronte, dove i combattimenti e i bombardamenti non si fermano. “La mattina ci si sveglia senza sapere se la giornata sarà tranquilla, senza sapere se potremo portare avanti le nostre attività sul campo o se ci sarà un nuovo attacco e nessuno potrà uscire di casa”, ha raccontato Irma Gjinaj a Lifegate.

Da quasi due anni il personale del Cesvi porta avanti attività educative, costruisce rifugi antiaerei nelle scuole e negli asili, ricostruisce gli asili distrutti e dà sostegno psicosociale e sanitario. “Cerchiamo di raggiungere soprattutto le persone che vivono nelle zone remote e che per diverse ragioni, come problematiche logistiche, impossibilità finanziaria o motivi di sicurezza, non hanno accesso a ospedali e ambulatori – ha racconta Irma Gjinai -. Oltre a ciò riforniamo gli ospedali psichiatrici e facciamo interventi sulla salute mentale: una piaga che accompagnerà questo Paese per i prossimi anni”.

Oltre alla paura, lo stato emotivo più comune è l’incertezza. Incertezza non solo sulla fine della guerra, ma nelle piccole cose della vita quotidiana. “È difficile programmare proprio le piccole cose, come andare a scuola, trovare un lavoro, avere un figlio, capire cosa fare delle propria vita. Per non parlare di chi ha un familiare al fronte”. 

Come racconta Irma, in due anni di combattimenti nulla è cambiato. E allo stesso modo non dovrebbe cambiare nemmeno l’attenzione di tutta la comunità internazionale verso l’Ucraina. “Dobbiamo assicurare continuità, affinché le comunità con cui lavoriamo continuino ad avere fiducia in noi, capiscano che non ci si fermerà lì, che non riceveranno gli aiuti solo per tre mesi e poi si vedrà. Dobbiamo cercare di essere più consistenti nei nostri interventi. L’aiuto umanitario non si deve fermare. L’appello personale che voglio lanciare a tutta la comunità internazionale e all’Italia in particolare è questo: dobbiamo sempre pensare all’Ucraina. Dobbiamo capire che ci sono persone che vivono col terrore, in uno stato di guerra, e che quando guardano il cielo pensano… ‘chissà cosa succederà oggi’”.

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