Il gruppo di moda Pvh ha sospeso le importazioni di cotone dallo Xinjang, in Cina, a causa della discriminazione ai danni degli uiguri.
Transnistria, la polveriera che rischia di esplodere al di là del fiume
Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulla guerra in Ucraina, pochi chilometri più ad ovest c’è una polveriera che rischia di esplodere. È l’autoproclamata Repubblica Moldova di Transnistria, patria di secessionisti che da più di trent’anni continuano ad aggrapparsi ai resti del sogno sovietico.
Una statua del rivoluzionario e politico sovietico Lenin sovrasta dall’alto una delle strade principali di Tiraspol, capitale della Repubblica Moldova di Transnistria. Dietro si staglia lo scorcio di un edificio governativo squadrato e spartano, il palazzo del Governo. Essendo questo territorio una rivendicazione separatista avanzata ormai nel lontano settembre del 1990, ma mai ratificata dagli altri stati delle Nazioni Unite (Onu), i funzionari governativi, le giunte comunali dei suoi modesti centri urbani fino ad arrivare al presidente Vadim Krasnosel’skij in persona non sono tecnicamente cariche riconosciute, se non per una sorta di accordo interno.
Ion Corobatai è un giovane ventenne transnistro proveniente dal distretto di Dubasari che ormai da anni studia e lavora a Chisinau, capitale della Moldova. Interpellando la maggioranza degli abitanti moldavi di nascita capita di udire commenti a mezza bocca, astiosi, sospettosi di ciò che accade al di là del fiume. Alcuni locali che invece hanno parenti oltre il confine, famiglie trasferitesi trent’anni fa, tengono per sé le loro opinioni sull’appartenenza di quei territori. Ion dal canto suo ha una visione molto semplice, quasi cristallina della questione: le dicerie sulle attività criminali e sulla possibile minaccia bellica rappresentata dal suo Paese natio sono solo sciocchezze. Certo, non nega che la Transnistria sia fortemente influenzata dalla cultura e dal governo russo, evidente nella lingua parlata e scritta, nelle tradizioni, nella burocrazia, nonché nella presenza di un distaccamento della quattordicesima armata delle guardie dell’Armata rossa. Ion però sorride, dicendo che gli piacerebbe invecchiare in Transnistria: lì l’aria è fresca e pulita.
Il massacro di Bendery
Non è raro imbattersi in cimeli e memorabilia bellici per le strade della Transnistria, come i carri sovietici svuotati e riverniciati che fanno minacciosamente mostra di sé ai lati delle strade. Sul fianco campeggia l’esclamazione за родину! (“Per la patria!”). È abbastanza chiaro che la patria cui inneggiano non è certo la Moldova. È proprio con carri armati e fuoco aperto sui civili che è stato combattuto il massacro di Bendery tra moldavi e transnistri, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica. In seguito agli sconvolgimenti ed alla riorganizzazione geopolitica che infuriò nei primi anni successivi alla perestrojka ed al crollo del muro, la Moldova fu tra coloro che scelsero di andare avanti e considerarsi un Paese a tutti gli effetti. Ma nei territori moldavi ad est del Nistro, la popolazione era di un altro avviso. Fu così indetto un referendum nel 1990 dal quale risultò un desiderio secessionista quasi unanime. Mentre l’anno seguente la Moldova dichiarava ufficialmente la propria indipendenza, la neocostituita Repubblica Moldava di Transnistria non fece attendere una propria versione dei fatti, decretando la propria secessione. Una dichiarazione che nessuno prese davvero sul serio, fino a quando nel giugno del 1992 le forza armate della quattordicesima armata rossa attraversarono il fatidico fiume e l’esercito moldavo rispose al fuoco. Mentre la gente moriva, i semi della discordia venivano gettati sotto lo sguardo della neonata Federazione russa, aperta sostenitrice della Transnistria.
Non serve certo un occhio esperto per rendersi conto dell’estremo grado di povertà nel quale versa la Transnistria. Ad un esame più attento però saltano agli occhi elementi fuori posto, come piccole stonature occidentali nella cadenzata nenia sovietica che pare di udire mentre si percorrono le strade. Qui un noto franchise, lì un cartonato di Topolino e una catena di ristoranti. Viene da pensare che forse la Transnistria non è poi così ignorata. La moneta corrente è il rublo, ma con esso non è impossibile acquistare un capo firmato o un kebab brandizzato degli Avengers. Un Paese che pare sforzarsi di restare fedele ad un modello ormai tramontato senza però rinunciare a qualche piccolo lusso. Tra tutti questi paradossi il più evidente è la Sheriff, onnipresente catena multisettoriale autoctona che rappresenta la fetta maggioritaria del prodotto interno lordo locale. Pompe di benzina, supermercati, perfino un grosso stadio ed una squadra di calcio che qualcuno ricorderà per aver sfidato l’Inter in Champions League nel 2021. La gente vocifera su chi ci sia dietro la Sheriff: “Il proprietario è ucraino!”, “Sono in combutta con la Russia!”, si dice tutto e niente, ma è un fatto che i ripuliti edifici di uno sfavillante bianco e blu sorgono come isole in un panorama affatto florido.
La gente dei villaggi delle campagne limitrofe è più socievole di quella di Tiraspol. Tatiana non ha problemi a far visitare a degli estranei la sua casa, parla profusamente della sua vita in Moldova prima del trasferimento in Transnistria, di come ha perso il piede in un incidente d’auto e di come della faccenda si sia occupato un non meglio elaborato sistema sanitario locale. Anche qui gli elementi dissonanti balzano agli occhi, mentre la simpatica signora sfoggia una t-shirt dei Washington Wizard e ci racconta di come sua figlia viva all’estero e non se la passi male. Le chiediamo il suo parere sulla guerra, ci dice che alla gente della Transnistria la guerra non importa affatto, che non li riguarda e che non hanno interesse nel partecipare.
Poi però ci mostra come un’esplosione abbia segnato i vetri delle sue finestre e ci indica nel mezzo dei campi di grano il luogo da cui si è propagata. Qualcuno ha fatto saltare il ponte ferroviario che univa la Transnistria all’Ucraina. Tatiana dice che sono stati gli ucraini, che temevano una manovra a tenaglia da ovest. Significherebbe che questa piccola e povera striscia di terra è ignorata, ma temuta come un cane randagio al quale però nessuno vuole pestare la coda. In fondo, da qui sono pochi i chilometri fino all’importante città marittima di Odessa, uno degli obiettivi più ambiti dall’avanzata russa fin dalle prime fasi della guerra.
Dana vive a Chisinau. È giovane, ride spesso. Quando i giornali iniziano a fare un gran parlare di Transnistria e rivolte lungo le vie della capitale le chiediamo che ne pensa. “Sì, ho letto quello che scrivono in Italia sulle proteste e tutto il resto”, dice con tono indecifrabile. “Francamente, penso che sia tutto un po’ gonfiato, se capite cosa intendo. Qualcuno è sceso per strada con striscioni filorussi, ma erano in pochi e qui tutti sappiamo che sono attori pagati per creare dissenso”. È certamente una possibilità, ma se qualcuno è stato pagato vuol dire che qualcun altro paga per il dissenso, che c’è un interesse. Le conseguenze potrebbero innescare un pericoloso effetto domino, ma forse anche queste sono dicerie. La gente è nervosa, parla molto. Tutta questa tensione invece è praticamente assente in Transnistria. Non certo perché coperta da baldanza nazionalista, quanto più da una quieta desolazione. Appare chiaro che qui la norma è questa e che solo a voler essere malfidati la si potrebbe definire la proverbiale calma prima della tempesta.
Cosa aspettarsi dalla Transnistria?
In alcuni punti, come a Dubasari, il Nistro crea dei bacini idrici che i locali sfruttano per ricavare energia idroelettrica tramite una diga, fiore all’occhiello del distretto. Trattenuto dal muro di cemento, il fiume si gonfia e si espande, generando una specie di grigio mare interno. Qui, nell’ultimo giorno della nostra permanenza in Transnistria, incontriamo due donne sulla spiaggia. Ci avviciniamo, scambiamo qualche parola. Scopriamo che una di loro è ucraina, viene da Odessa ma non torna nel suo Paese da tempo, l’altra è nata qui. Sono amiche, non sembrano influenzate da animosità o patriottismi. La donna ucraina ci dice che ciò che resta della sua famiglia la considera una traditrice, che pensano sia ipnotizzata dalla propaganda russa, che è triste vedere come l’astio diventa un muro che porta all’incomunicabilità. Per entrambe questa guerra è una follia che dovrebbe cessare immediatamente. Sarebbe bello se parlassero davvero a nome di tutti gli abitanti, ma durante questi giorni abbiamo imparato come l’opinione sulle strade sia sfuggente e mutevole.
Le lasciamo così, sedute una accanto all’altra mentre fissano il Nistro, simbolo di questo Paese assurdo pieno di stonature ma anche umanità, se si riesce a non fermarsi alla fredda apparenza. È difficile prevedere se davvero nel prossimo futuro la Transnistria romperà il silenzio per schierarsi apertamente sulla scacchiera del conflitto o servirà da strumento per qualcuno più in alto. Quel che è certo è che questa piccola lingua di terra, così a lungo sconosciuta, è decisa ad alzare la voce. Quella tanto bramata indipendenza non è stata dimenticata, e la situazione in Ucraina potrebbe fornire i presupposti per strapparla una volta per tutte. Ciò che si udirà, sarà un urlo di guerra o una richiesta di attenzione. O forse entrambe le cose.
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