Il presidente di Haiti resta al potere, ma i manifestanti considerano scaduto il suo mandato. Dietro alle proteste politiche c’è un malcontento generale.
Da diversi giorni migliaia di persone sfilano per le strade di Port-au-Prince e di altre città di Haiti. Protestano contro il presidente Jovenel Moise, accusandolo di non stare rispettando la scadenza del suo mandato. Il timore è che il suo obiettivo sia un forte accentramento dei poteri, come emerso anche da altre sue iniziative politiche recenti, verso una deriva di tipo dittatoriale. Ma la tensione ha in realtà radici più lontane, che riguardano la povertà, la corruzione e la criminalità che contraddistinguono sempre più lo stato caraibico.
The @ProgIntl stands with the people of Haiti, striking across the nation against the dictatorship of Jovenel Moïse.
Step down, Moïse. Step off, United States. And make way for a new popular sovereignty in Haiti.pic.twitter.com/8r62CculfX
Il 7 febbraio scadeva il mandato del presidente di Haiti, Jovenel Moise. O quanto meno questo era quello che pensava una parte della popolazione, che si è invece scontrata con una realtà differente. Moise ha infatti affermato che rimarrà al potere fino a febbraio 2022, dal momento che nel conteggio dei cinque anni della sua carica il primo non conta perché occupato da un governo ad interim. In effetti alla fine del 2015 si erano tenute le elezioni, ma a causa di brogli il risultato era stato invalidato. Moise vinse la tornata elettorale dell’anno successivo e prese il potere a febbraio del 2017, da qui la sua rivendicazione che il mandato quinquennale non è ancora scaduto. Molti haitiani considerano però come decisiva la data della prima votazione.
La diatriba temporale appare più che altro un pretesto. Negli ultimi tempi Moise si è contraddistinto per alcune decisioni considerate autoritarie, che hanno fatto temere per la tenuta democratica di Haiti. Alla fine del 2019 dovevano tenersi le elezioni legislative, ma il presidente le ha rinviate a data da destinarsi e a ormai un anno e mezzo di distanza ancora non si sono tenute. Il risultato è che l’isola caraibica si trova di fatto senza un parlamento eletto, con soli 11 parlamentari a rappresentare una popolazione che conta 11 milioni di persone. Il paese nella sua attività legislativa va avanti a decreti presidenziali, con Moise che ha sospeso due terzi del Senato, oltre alla Camera dei deputati. A questo si aggiunge un referendum promosso dallo stesso presidente e che si terrà in primavera, volto a cambiare alcune norme della Costituzione. La paura della popolazione è una deriva ulteriormente accentratrice, in un paese che già vive un problema di rappresentanza politica. Ma si teme anche che il voto referendario possa essere influenzato da brogli e pressioni, come avvenuto nel recente passato.
In migliaia in piazza
Dopo che il presidente Moise ha confermato la non intenzione a lasciare il posto, migliaia di abitanti di Haiti sono scesi in piazza per protestare. I cortei sono stati inizialmente pacifici, ma poi si sono verificati violenti scontri con la polizia. Decine di manifestanti sono rimasti feriti, in particolare dai proiettili di gomma esplosi dalle forze dell’ordine per disperdere la folla. E in molti sono stati arrestati. Mentre le persone in strada agitavano cartelli contro la dittatura e la corruzione, il presidente Moise ha denunciato come fosse in atto un tentativo di colpo di stato. 23 persone, tra cui un giudice che aveva appoggiato le proteste e un ufficiale di polizia, sono state arrestate con l’accusa di voler deporre e uccidere il presidente. L’opposizione intanto ha nominato unilateralmente nuovo presidente Joseph Mécène Jean Louis, il giudice più anziano della Cassazione, che ha accettato l’incarico.
La comunità internazionale si è fatta sentire nei giorni scorsi e ha preso perlopiù le parti del presidente Moise. Ad alzare più la voce, in particolare, sono state le Nazioni Unite, il governo degli Stati Uniti e l’Organizzazione degli stati americani, mentre i manifestanti hanno accusato questi organismi di interferenza negli affari interni di Haiti.
Tra povertà e criminalità
Se la tensione sull’isola si sta giocando sulla figura del presidente e ha dunque carattere politico, la realtà è che quanto sta succedendo è espressione del malcontento generale della popolazione. Lo stato caraibico si trova in condizioni economicamente e socialmente disastrate, oltre il 60 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la pandemia con tutte le sue limitazioni non ha fatto altro che accentuare queste difficoltà. La politica non ha saputo offrire una risposta adeguata e oggi sta pagando il prezzo di questa crisi. Ma Haiti deve fare i conti anche con un altro problema, quello della criminalità.
Il paese sta vivendo una vera e propria epidemia di rapimenti, oltre che una spirale di violenza portata avanti dalle gang. Dal maggio scorso ci sono stati oltre 600 omicidi, mentre sono aumentati gli scontri tra diversi gruppi criminali legati al traffico di droga. Molti quartieri periferici delle città haitiane sono stati scossi da rivolte e proteste dopo l’uccisione di comuni cittadini da parte di banditi armati, come lo scorso dicembre. L’accusa è che dietro a questa situazione ci sia anche la mano delle istituzioni politiche e in particolare del presidente Moise: il caos come strategia di mantenimento dell’ordine sociale, ma anche per frenare l’impeto degli oppositori. E poche settimane fa alcune persone vicine al presidente, tra cui un braccio destro del suo ministro dell’Interno, hanno ricevutosanzioni per aver fornito armi e aver offerto protezione a gruppi criminali che operavano contro figure dell’opposizione.
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