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Da qualche giorno i caselli di Porta Venezia a Milano sono impacchettati con della juta. Si tratta di un’installazione realizzata da un artista ghanese per la Art week che rimarrà visibile anche per tutta la settimana del design. Ecco il significato di quest’opera insolita.
In uno dei luoghi simbolo della città, frequentatissimo da cittadini e turisti, è comparsa una novità piuttosto evidente: i caselli daziari di Porta Venezia a Milano sono stati entrambi impacchettati con della juta, dando vita così all’installazione di Ibrahim Mahama. Il giovane ma già noto artista del Ghana è stato chiamato dalla Fondazione Nicola Trussardi per realizzare A friend, questo il titolo dell’opera “site-specific”, termine inglese che denota un progetto artistico pensato per un luogo preciso, il cui messaggio è molto attuale e di fondamentale importanza per comprendere il progetto.
In molti l’hanno già fotografata e quasi tutti si sono chiesti cosa significhi e quale sia lo scopo della nuova “faccia” dei caselli di Porta Venezia. Si tratta di un’installazione inaugurata ufficialmente il 2 aprile per restare visibile fino a domenica 14 aprile, quindi per tutta la durata della Design Week di Milano. L’autore 32enne è già parecchio noto nel panorama artistico internazionale per i suoi “impacchettamenti”, e ha partecipato all’Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia nel 2015, a Documenta 14, che si è tenuto nel 2017 nella capitale greca, Atene, e nella città tedesca di Kassel, ed è stato scelto tra gli artisti che rappresenteranno il Ghana alla prossima Biennale di Venezia, quella del 2019, con partenza l’11 maggio.
L’impatto visivo dei lavori di Ibrahim Mahama è notevole, difficile che un monumento da lui trattato passi inosservato, ma forse è meno frequente che si conosca il significato e il valore dell’installazione e dei materiali che vengono utilizzati. Partiamo dai sacchi di juta che adopera. Sono elementi fondamentali della sua ricerca perché simbolo dei mercati del Ghana: vengono fabbricati in Asia e importati in Africa per il trasporto su scala internazionale di merci alimentari e di vario genere (cacao, fagioli, riso, ma anche carbone). Strappati, rattoppati e marcati con vari segni e coordinate, i sacchi con le loro drammatiche ricuciture raffazzonate diventano, nell’idea di Mahama, garze che tamponano le ferite della storia, simbolo di conflitti e drammi che da secoli si consumano all’ombra dell’economia globale.
Sono anche la tela che racconta e racchiude una storia. Così, dei semplici sacchi indagano attraverso una forma d’arte non immediatamente comprensibile la forza lavoro che si cela dietro la circolazione internazionale delle merci. Il sacco di juta, spiega Mahama, “racconta delle mani che l’hanno sollevato, come dei prodotti che ha portato con sé, tra porti, magazzini, mercati e città. Le condizioni delle persone vi restano imprigionate. E lo stesso accade ai luoghi che attraversa”. Oltre all’aspetto strettamente economico vi è quindi quello sociale: per assemblare i sacchi, spesso lo stesso artista collabora con decine di migranti provenienti da zone urbane e rurali in cerca di lavoro, senza documenti né diritti, vittime di un’esistenza nomade e incerta che ricorda le condizioni subite dagli oggetti utilizzati nelle opere.
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