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La nuova mostra “Recto Verso”, attualmente in corso fino al 14 febbraio 2016 nella Galleria Nord della Fondazione Prada di Milano, esplora il lato nascosto dell’oggetto artistico.
Capovolgere e rivelare: un’operazione apparentemente semplice ed innocua che può tuttavia innescare nuove ed inedite chiavi di lettura in un ambito già di per sé mutevole ed effervescente quale quello dell’arte contemporanea. In tale prospettiva la nuova esposizione dal titolo “Recto Verso” recentemente inaugurata alla Galleria Nord della Fondazione Prada di Milano e in corso fino al 14 febbraio 2016, si ripropone appunto di focalizzare l’attenzione sugli elementi abitualmente nascosti dell’oggetto artistico, ovvero sul “rovescio” o sul retro di esso (il cosiddetto “verso”), comunemente sottratto allo sguardo del fruitore, o ritenuto di secondaria importanza rispetto al lato frontale o “pubblico” (il “recto”) del manufatto.
Tale capovolgimento può essere più o meno intenzionalmente attuato dagli artisti stessi con differenti modalità ed obiettivi: si passa da alcuni esempi di trompe-l’oeil della pittura fiamminga settecentesca sino all’uso del retro del quadro come strumento per veicolare un messaggio politico, come nel caso della contestazione sessantottina di Gastone Novelli alla Biennale di Venezia o in quello di Michelangelo Pistoletto, che in “Un libro, il lato letterario del quadro” (1970, v. foto di copertina) arriva a trarre dal lato B del telaio un’ampia ed anomala superficie di scrittura.
Manipolare il “recto” e il “verso” può determinare altresì, spesso e volentieri, un vero e proprio ribaltamento di gerarchie, come nel caso delle tre tele triangolari di Giulio Paolini (“La decima musa”, 1966) in cui l’opera diviene visibile solo se guardata al contrario, cioè invertendo il punto di vista abituale. Fronte e retro arrivano poi addirittura a sovrapporsi e a condensarsi reciprocamente attraverso quella fusione di piani che caratterizza alcune note opere di Alberto Burri (“Plastica e combustione su cornice di alluminio”, 1962).
Sulla base di tale principio ispiratore la nuova mostra della Fondazione Prada, elaborata, come molte delle precedenti, attraverso l’originale formula della curatela collettiva affidata al cosiddetto “Thought Council”, vera e propria task force curatoriale composta da quattro esperti stranieri, procede traendo spunto, come di consueto, dalle opere presenti nella collezione permanente “indigena” per poi integrarle con prestiti provenienti da altre gallerie o istituzioni museali.
Dunque dipinti e fotografie in esposizione declinano attraverso una formula assai peculiare la vocazione tipicamente intellettualistica ed autoproblematica dell’arte contemporanea, da sempre protesa ad indagare le ragioni intime del proprio esistere, l’essenza misteriosa o la stessa legittimità del proprio costituirsi come “arte”, cioè l’inafferrabile emergere del suo status tra i mille oggetti del mondo fisico. Condurre in primo piano il retro dell’opera sortisce dunque non soltanto l’effetto di conferire tridimensionalità e nuove angolazioni visuali rispetto all’ordinario spessore bidimensionale del dipinto o della fotografia, ma consente anche di attuare il noto auspicio decostruzionista di Derrida consistente nell’ “abitare il margine come se fosse un territorio”.
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