
Da secoli, il frutto dell’ume viene coltivato a Minabe e Tanabe in armonia con i boschi cedui e gli insetti impollinatori: un metodo riconosciuto dalla Fao.
Produrre biologico vuol dire più cura, più manodopera e di riflesso costi di produzione elevati. Ma la spesa convenzionale ha dei costi nascosti.
Pane, pasta, riso, frutta, verdura, formaggi e biscotti: tutto senza pesticidi e conservanti. In poche parole, una spesa bio all’insegna della salute che accontenta i consumatori ma che secondo un pregiudizio diffuso fa soffrire i portafogli.
Dare forfait? Macché! Oggi è possibile destreggiarsi tra negozi specializzati, mercatini del naturale, vendite per
corrispondenza di cereali integrali e miele ottenuti come bio comanda. Anche la grande distribuzione ha iniziato a strizzare l’occhio al cliente salutista riempiendo i supermercati di paste integrali, latte di soia, zucchero di canna e tanto altro. Sono tornati di moda addirittura orzo, miglio, farro, avena cibi dalle sorprendenti proprietà nutrizionali che erano caduti nel dimenticatoio.
E il pubblico come risponde? A parte gli intossicati dello shopping, acquirenti che si aggirano nei centri commerciali
caricandosi di pacchi e scatolette e una volta a casa li ripongono senza nemmeno aprirli, la voglia di cibo pulito è confermata da una recente ricerca del Censis: venti milioni di italiani si dichiarano disposti a inserire nel carrello articoli da agricoltura biologica in linea con l’ambiente e la salute, purché l’aumento di prezzo non superi il 30 per cento.
Ma c’è una ragione ai costi superiori? Per quanto il mercato del biologico possa crescere non potrà mai avere gli stessi prezzi di quello convenzionale. E sì, perché produrre bio vuol dire più cura, più manodopera e di riflesso costi di produzione elevati. Basti pensare che i fertilizzanti naturali hanno un costo maggiore rispetto a quelli di sintesi; che il raccolto, pur di qualità migliore, è di quantità inferiore; che per tenere sotto controllo le piante infestanti si impiegano mezzi meccanici e fisici generalmente assai onerosi; che i costi di distribuzione incidono in misura sensibile, anche se le possibilità che scendano sono notevoli visti gli attuali trend di diffusione del biologico. Poi, la trasformazione, che ha un prezzo più elevato: per realizzare spaghetti, penne e company si impiegano acque di sorgente e la loro essiccazione viene effettuata a una temperatura non superiore a 55 gradi e non ai cento dell’industria. Stesso discorso per tutti gli altri generi alimentari e no.
Insomma, la sentenza è alimenti bio più costosi ma senz’altro più sani e nutrienti: così è possibile consumarne una quota inferiore, compensando la differenza di prezzo all’origine. Una ultima considerazione: se i danni causati dall’agricoltura chimica all’ambiente fossero considerati, come è giusto, nel prezzo di produzione il costo degli alimenti bio sarebbe decisamente inferiore ai convenzionali.
Massimo Ilari
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