La Cop28 è finita, ma bisogna essere consapevoli del fatto che il vero test risiede altrove. Dalla disinformazione al ruolo delle città, ciò che conta avviene lontano dai riflettori.
Clima, l’industria del cemento deve cambiare in fretta
L’industria del cemento è troppo inquinante, tanto più alla luce dell’Accordo di Parigi. Se ci tiene ai suoi profitti, deve correre ai ripari.
L’industria del cemento, così come la conosciamo, è troppo inquinante e ormai inadatta a far fronte alle sfide della lotta ai cambiamenti climatici. E, se vuole salvaguardare i suoi profitti, sarà costretta a correre ai ripari. Lo afferma un rapporto pubblicato da Cdp, un’organizzazione che lavora per fornire agli investitori istituzionali informazioni sull’impatto ambientale delle grandi aziende.
Le imprese del cemento sotto esame
Il settore del cemento è uno dei più impattanti in assoluto per il nostro pianeta: da solo produce il 5 per cento delle emissioni globali di CO2, più di paesi come il Giappone e il Canada. Questa realtà non è assolutamente compatibile con gli accordi presi alla Cop 21 di Parigi, che propongono di contenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi.
Il report ha così preso in analisi le dodici società più grandi del settore, a livello di produzione e capitalizzazione di mercato. In testa alla graduatoria sono le svizzere Holcim e LafrageHolcim, seguite dall’indiana Shree Cement e dalla francese Lafarge. Il campione comprende anche Crh (Irlanda), Cementos Argos (Colombia), HeidelbergCement (Germania), Cemex (Messico), Ultratech Cement (India), Taiheiyo Cement (Giappone). Anche l’Italia è presente, con Buzzi Unicem, Cementir e Italcementi.
In alcuni casi – fanno notare gli analisti di Cdp – da parte delle big del cemento è mancata la collaborazione: Anhui Conch Cement, Siam Cement, Dangote Cement e Vulcan Materials non hanno fornito i dati richiesti.
La CO2 costa caro
Il report dà i voti a ogni società, su cinque aree: l’impegno per ridurre le emissioni, la gestione efficiente delle fonti energetiche, l’esposizione monetaria a una possibile carbon tax, la sede in una zona a rischio di carenza idrica, l’azione di lobbying sulle politiche per il clima.
Le conclusioni del rapporto sono nette: se venisse adottata una tassazione delle emissioni di CO2 pari a 10 dollari, queste dodici big del cemento rischierebbero di veder sfumare complessivamente ben 4,5 miliardi di dollari di profitti. Si riscontrano grandi differenze tra caso e caso, con alcune aziende che si stanno attivando per ridurre le emissioni e altre che, al contrario, hanno ancora molta strada da fare. Tra le più impreparate ci sono proprio le nostrane Cementir e Italcementi, che (su una scala da A ad E) ottengono una sfilza di desolanti D ed E. Tra quelle analizzate, per giunta, una società su due ha sede in un’area a rischio idrico e con l’avanzata del cambiamento climatico la situazione potrebbe decisamente peggiorare.
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