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La legge 194 compie 41 anni, ma ancora oggi le donne che intendono abortire vanno incontro a una strada costellata di ostacoli. È il tema di un’inchiesta della Cnn.
“In Italia l’aborto è un diritto. Per molte donne, ottenerlo è quasi impossibile”. È il titolo di una lunga inchiesta pubblicata dalla Cnn. Un viaggio che comincia da una storia (purtroppo) come tante, quella di Emma (nome di fantasia), che trascorso il termine di 90 giorni dall’inizio della gravidanza viene informata di una grave malformazione del feto che porta in grembo, ed è costretta a viaggiare per centinaia di chilometri pur di raggiungere una struttura (l’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma) che le consenta di eseguire un aborto terapeutico. Questa vicenda così delicata e dolorosa è il punto di partenza per capire cosa resti della legge 194, che in questi giorni compie 41 anni.
La legge 194, promulgata il 22 maggio 1978 e confermata dagli elettori con il referendum abrogativo del 17 maggio 1981, ha reso legale l’interruzione volontaria di gravidanza. Fino a quel momento il codice penale puniva con il carcere sia la donna sia il medico che aveva praticato l’operazione.
L’aborto è consentito soltanto entro i 90 giorni dall’ultima mestruazione, un limite che può essere superato (arrivando fino al quinto mese di gravidanza) soltanto se il feto mostra gravi malformazioni o la salute della donna corre seri pericoli. Può essere praticato in qualsiasi struttura pubblica o convenzionata, mediante l’intervento chirurgico o (a partire dal 2009) la pillola abortiva RU486, che risulta meno invasiva. Per chi pratica aborti clandestini è prevista la reclusione fino a cinque anni.
Il personale medico e paramedico (inclusi quindi anestesisti, infermieri, ostetrici) ha diritto all’obiezione di coscienza: ciò significa che, per convinzioni personali, etiche o religiose, può rifiutarsi di praticare aborti. Questo diritto viene a cadere soltanto in situazioni di grave emergenza in cui l’aborto risulta indispensabile per salvare la vita della paziente.
Visualizza questo post su InstagramUNA MAREA DI PIÙ DI 150MILA CORPI! Tale era la grandezza e la favolosità del corteo che ha attraversato Verona questo pomeriggio come risposta al WCF. Persone provenienti da tanti paesi del mondo e da varie città d’Italia, appartenenti a diverse generazioni, uomini e donne, tutt* insieme per ribadire una sola cosa: GIÙ LE MANI DAI NOSTRI DESIDERI! #30mveronatransfem #veronacittàtransfemminista #verona #nonunadimeno #agitazionepermanente #wetoogether #corteo #manifestazione
Proprio a quest’ultimo tema la Cnn dedica parecchia attenzione. È vero infatti che l’obiezione di coscienza è tutt’altro che un’esclusiva italiana, perché a garantirla sono 22 stati europei su 28 (i dati sono del Global Abortion Policies Database dell’Onu). Nel nostro paese, secondo la relazione del ministero della Salute pubblicata a gennaio di quest’anno con i dati aggiornati al 2017, il 68,4 per cento dei ginecologi pratica l’obiezione di coscienza, una percentuale più alta rispetto a quella degli anestesisti (45,6 per cento) e del personale non medico (38,9 per cento).
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Ma la media nazionale – sottolinea anche il rapporto – è indicativa fino a un certo punto, perché tutto dipende dall’equilibrio tra obiettori e non all’interno del singolo nosocomio. E se in un ospedale, in una città o addirittura in una regione d’Italia gli obiettori sono la maggioranza, l’aborto diventa una corsa a ostacoli. È quello che capita in Molise (dove i ginecologi obiettori sono il 96,4 per cento), Basilicata (88,1 per cento), Sicilia (83,2 per cento), Abruzzo (80,4 per cento). Il carico medio di lavoro per ogni ginecologo non obiettore, spiega il ministero, va dalle 0,2 interruzioni di gravidanza alla settimana in Valle d’Aosta alle 8,2 in Molise.
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Questo è poi il motivo per cui l’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma nel 2017 ha indetto un concorso per assumere due nuovi medici, a patto però che non si dichiarassero obiettori. Una scelta che ha sollevato un vespaio di polemiche, ma che di fatto era finalizzata a scongiurare l’eventualità che il reparto in questione (dedicato proprio alle interruzioni di gravidanza) si ritrovasse a corto di personale. Al momento – fa notare la Cnn – la struttura si è conquistata la fama di luogo a cui rivolgersi per abortire, anche se i ginecologi obiettori restano la larga maggioranza (19 su 25).
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