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Siamo talmente in ritardo ad agire che un aumento della temperatura media globale di 2 gradi è la migliore ipotesi che abbiamo. Ce ne parla Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana.
Nel contesto della crisi climatica, il tempo della prevenzione ha ormai lasciato spazio alla mitigazione o, meglio, alla limitazione dei danni. Perché, come afferma il climatologo e divulgatore scientifico Luca Mercalli, il punto di non ritorno l’abbiamo già superato, quarant’anni fa. Ne sono prova gli eventi meteorologici estremi sempre più frequenti, le crisi umanitarie, l’estinzione delle specie, i ghiacciai che scompaiono e i continui inquietanti record – come l’ultimo il mese scorso: l’ottobre più caldo della storia.
Così i superlativi assoluti iniziano a suonare come la normalità e si cercano termini e aggettivi nuovi che possano descrivere situazioni e scenari sempre peggiori. Infatti, ci troviamo di fronte a un futuro incerto e inedito, in quanto “truccato” dalla mano umana, tanto che gli scienziati affermano che ci troviamo ad osservare un mondo che non conosciamo. Perché se è vero che il clima è sempre stato in continua evoluzione, i problemi sono iniziati quando l’attività umana si è sovrapposta, e in alcuni casi addirittura sostituita, ai suoi cicli naturali, inaugurando di conseguenza un’era in cui l’uomo è più impattante della natura: l’Antropocene.
Non a caso l’Ipcc (il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) ha affermato che abbiamo poco più di dieci anni per prendere azioni decisive per limitare il riscaldamento globale o il clima impazzirà, non si sa fino a che misura ma di certo catastrofica. Per capire un po’ meglio la situazione e gli scenari che ci stiamo riservando, tra movimenti per il clima che denunciano inazione e le promesse dei governi che sembrano lontane dall’essere compiute, abbiamo parlato con Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana, durante il forum mondiale sulle foreste urbane che si è tenuto alla Triennale di Milano.
Quali sono gli scenari che ci si prospettano davanti, nella migliore e nella peggiore delle ipotesi?
Le due ipotesi che sono state tracciate dal trattato intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazione Unite, e in qualche modo approvate nell’Accordo di Parigi nel 2015, sono da un lato uno scenario peggiore ovvero senza controllo delle emissioni in cui entro il 2100 ci potremmo aspettare anche 5 gradi in più a livello di temperatura globale con conseguenze catastrofiche sull’umanità. Oppure, dall’altro, uno scenario più prudente che non farebbe salire la temperatura oltre i 2 gradi alla fine di questo secolo ma che porterà comunque delle conseguenze. Questo perché purtroppo dobbiamo pensare che l’aumento della temperatura, che è il risultato del ritardo nell’affrontare il problema nei quarant’anni precedenti, è ormai un colpo in canna. Però sempre meglio 2 gradi che 5, qualora che si applichino le riduzioni delle emissioni in tutto il mondo in fretta.
In questo senso, gli alberi sono nostri alleati nella mitigazione dei cambiamenti climatici?
Il ruolo degli alberi e delle foreste nella mitigazione dei cambiamenti climatici è importante ma dobbiamo pensare che non è risolutivo. Ormai bruciamo talmente tanti combustibili fossili che gli alberi non stanno dietro a ricatturare questo carbonio. Possiamo dire che fanno la loro parte ma non possiamo affidarci solo ad essi per risolvere il problema del riscaldamento globale.
Pur essendo un problema che riguarda tutti, perché non riusciamo ad avere una visione e un approccio globale al clima?
Il clima è la cosa più globalizzata che abbiamo, ma non è affrontato come tale, come purtroppo nessun altro problema. Forse ad oggi abbiamo globalizzato solo la finanza e l’inquinamento. Ma non abbiamo globalizzato nessun modo di affrontare la crisi climatica tant’è che l’accordo di Parigi firmato più o meno da tutti i paesi nel 2015 ha già visto la defezione di Donald Trump. Quindi altro che globalizzare i provvedimenti, qui invece li stiamo frammentando in tante scelte di singoli governi, con alcuni che addirittura remano contro.
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Poi abbiamo un problema di percezione del clima. Dobbiamo tenere presente che quello che conta sono i dati globali. Può capitare che ci sia una settimana o un mese in condizioni per fortuna normali, che nevichi a metà novembre sulle Alpi non è qualcosa di straordinario. Purtroppo non diamo abbastanza peso a tutti i dati assolutamente eccezionali che a livello globale ci dicono che la temperatura non è mai stata così alta negli ultimi 150 anni, in realtà anche negli ultimi millenni se guardiamo ai dati ottenuti con metodi non numerici, ovvero senza i termometri che abbiamo da circa 150 anni a livello globale, mentre ci sono altri metodi per ricostruire le temperature anche per migliaia di anni fa. Sappiamo che adesso siamo nel momento più caldo della storia della civiltà. Se continuiamo a guardare che una settimana fa freddo a Milano non abbiamo certamente risolto il problema. È un po’ cercare delle scuse, degli alibi per non agire.
Siamo ancora in tempo per agire?
Siamo in tempo ma solo per ridurre il danno, non certo per guarire. Ormai i quarant’anni di ritardo rispetto ai primi allarmi organizzati già a livello politico che datano alla fine degli anni Settanta pesano sulla possibilità di riparare questo danno. Quindi almeno 2 gradi ce li becchiamo, anche se agiamo subito. Se non facciamo niente ce ne prendiamo 5.
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