Le molestie nelle agenzie pubblicitarie che hanno scatenato il #MeToo italiano

Storie di donne che ancora oggi fanno fatica a emergere per paura, ma che raccontano sempre di più la tossicità degli ambienti di lavoro.

E veniamo alla domanda personale. Massimo Guastini: io ho intuito (intuito eh…) che nel vostro mondo, il mondo della pubblicità, attualmente ci sia un problema di molestie sessuali. È così?

Questa è la trentatreesima domanda di un’intervista condotta da Monica Rossi, profilo Facebook anonimo di un personaggio che da tempo intervista vari intellettuali, a Massimo Guastini, volto noto della pubblicità italiana. La domanda, ma soprattutto la risposta, hanno dato il via nelle ultime settimane a un #MeToo delle agenzie pubblicitarie attraverso il quale molte donne stanno raccontando le proprie esperienze di molestie avvenute all’interno delle redazioni pubblicitarie. Quello del #MeToo è un movimento femminista contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne diffuso dall’ottobre 2017 dopo le accuse di violenza sessuale contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein e usato sui social network per dimostrare la diffusione della violenza di genere soprattutto sui posti di lavoro.

Massimo Guastini, infatti, ha risposto alla domanda posta da Monica Rossi prima di tutto confermando che “sì, è proprio così”, e poi citando una “famosa chat in cui diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie”. Una confessione che ha scatenato polemiche e dibattiti, ma anche un’ondata di testimonianze da parte di persone che sono state vittime di molestie sui luoghi di lavoro, aprendo la strada a una sorta di #MeToo delle agenzie pubblicitarie.

Le accuse mosse da Guastini

Nell’intervista con Monica Rossi, il pubblicitario Guastini ha mosso pesanti accuse nei confronti di Pasquale Diaferia, un altro nome noto nel mondo della comunicazione, riferendosi a lui come “uno di questi molestatori seriali”.

Diaferia non è mai stato condannato per abusi sessuali e, per quanto noto pubblicamente, non è mai stato nemmeno indagato o denunciato per tale reato. Secondo quanto riportato da Guastini, però, il pubblicitario avrebbe avuto comportamenti abusanti “tra il 2007 e il 2016. Perché me l’hanno raccontato una dozzina di ragazze. L’ultima proprio in questi giorni, anche se i fatti che mi ha descritto avvennero nel 2012”. Guastini racconta anche di un episodio specifico, in cui una stagista che lavorava nella sua agenzia gli raccontò la sua esperienza diretta in cui Diaferia “tentò approcci sessuali inopportuni dal momento che lei continuava a respingerlo. Non ci fu stupro, ma decisamente quelle furono molestie sessuali”. Dopo queste dichiarazioni l’Art directors club italiano (Adci), che aveva recentemente invitato Diaferia a fare da mentore, ha deciso all’unanimità di allontanarlo dagli iscritti per “violazione dello Statuto”.

Le accuse, però, non si fermano qui. Il noto pubblicitario, nell’intervista, fa riferimento anche a una chat per soli uomini, soprannominata “chat degli 80”, in cui venivano quotidianamente condivisi commenti sessisti sulle colleghe donne di “un’agenzia di pubblicità molto famosa, molto potente, molto importante”.

Molestie donne
Le testimonianze di molestie sul lavoro subite dalle donne sono in costante aumento © Getty Images

“We are social” e la chat sessista contro le colleghe donne

La storia della chat non è nuova, già nel gennaio 2020 il podcast Freegida aveva raccontato nella puntata numero 5 intitolata “È solo un’altra stupida storia di molestie”, la sua esistenza senza, però, rendere pubblico il nome dell’agenzia.

In questa occasione, invece, il nome dell’agenzia è saltato fuori e a renderlo noto è stato uno dei fondatori, Gabriele Cucinella, proprio su Facebook. Si tratta di We are social, azienda con migliaia di dipendenti, uffici in tutto il mondo e una sede a Milano.

La prima ad aver scoperto l’esistenza di questa chat, nel 2017, è stata Zahra Abdullahi, che in quel periodo lavorava a We are social come writer. Abdullahi ha dichiarato al Post che “In un giorno qualsiasi, i commenti andavano da ‘che bona è quella’, ‘come fa quella ad andare in giro senza reggiseno’, ‘quella si è messa un vestitino pensando di avere un bel culo ma non sa di essere una cazzo di balena’, ‘oggi quella sorride, si vede che ieri ha preso il cazzo dal fidanzato'”.

Molestie donne
Storie in cui si leggono anche esperienze di donne che hanno trovato il coraggio di parlare, ma che sono state zittite © Getty Images

Mario Leopoldo Scrima è, ad oggi, l’unico membro di quella chat ad averne parlato pubblicamente, anche lui come Guastini, attraverso un’intervista condotta dal profilo Monica Rossi. Scrima ha lavorato per l’agenzia dal 2017 al 2021 e, secondo i suoi racconti, si trattava di una chat su Skype, programma utilizzato per scambiare comunicazioni tra dipendenti dell’agenzia, che esisteva dal 2015/2016, composta da soli uomini e in cui “c’eravamo proprio TUTTI: team director, account director, account manager, account executive, editor, writer, creative, art, stagisti” a esclusione di Cucinella, Magi e Nava, i tre capi e fondatori dell’agenzia.

Il racconto di Scrima ha aggiunto dettagli sul contenuto della chat, dichiarando nell’intervista con Monica Rossi che “durante le riunioni, le colleghe non sapevano che prima o addirittura durante noi intanto chattavamo in tempo reale commentando la loro voce odiosa, il loro culo grosso, le loro tettine acerbe o cose così. E quando i meeting finivano, non sanno che molto spesso i maschi rimanevano qualche minuto in più per ‘approfondire’ i discorsi iniziati in quella famosa chat”. Uno dei tre fondatori dell’agenzia We Are Social, Gabriele Cucinella (attualmente regional lead Eu Area della struttura) ha raccontato a Prima comunicazione, la sua versione dei fatti.
Cucinella ha dichiarato che di aver scoperto l’esistenza della chat nel 2017, quando è stata chiusa, aggiungendo che “l’azienda ha sempre ritenuto che questa iniziativa fosse stata ignobile e vergognosa e l’abbiamo subito condannata. Abbiamo anche fatto un controllo interno, ma sui nostri sistemi non avevamo la possibilità di identificare alcun contenuto, perché la chat Skype non era utilizzata ufficialmente dall’azienda”.

Nessuna delle persone coinvolte nella chat fu licenziata e non fu messo in atto alcun provvedimento disciplinare, ma l’amministratore delegato di We are social ha aggiunto che, visti i nuovi elementi emersi, “ribadiamo che consideriamo inaccettabile l’accaduto” rendendo noto che l’azienda ha deciso di intraprendere nuove azioni e incaricato un ente terzo di rifare le indagini.

Il #MeToo delle pubblicitarie italiane

Oltre ad aver provocato un’ondata di sdegno e accuse contro le pratiche sessiste che continuamente avvengono all’interno dei luoghi di lavoro (e non solo), la vicenda ha scatenato un vero e proprio #MeToo italiano.

Il 19 giugno 2023, pochi giorni dopo la diffusione della notizia che riguardava la chat creata dai dipendenti di We are social, Tania Loschi, copywriter freelance, ha raccolto sul suo profilo Instagram centinaia di testimonianze di persone che hanno subìto molestie, in particolare sul luogo di lavoro e nell’ambito della comunicazione e della pubblicità, denunciando anche quanto subito in prima persona. “È una cultura sistemica, in cui le agenzie affondano le loro radici”, ha spiegato.

Donne spiate dalla serratura del bagno e altre, come lei, che raccontano come sono state più volte trattate come oggetti, e in alcune occasioni usate come merce di scambio per clienti insoddisfatti. Storie in cui si leggono anche esperienze di donne che hanno trovato il coraggio di parlare, ma che sono state zittite, sminuite o persino non credute disincentivando le altre dal denunciare a propria volta.

Storie che parlano di violenza, molestie, abusi di potere dati dalla posizione lavorativa ricoperta e che forniscono il ritratto di un ambiente tossico, sessista e misogino, che sessualizza i corpi delle donne e, ancora una volta, le rende brutalmente oggetti, oscurando la personalità e soprattutto la professionalità di ognuna. Giulia Scanna, digital copywriter, social media manager e docente, ha raccontato a Repubblica la propria storia di abusi subiti quando era una stagista da parte di un uomo di 50 anni che aveva conosciuto a un evento di lavoro. In un post pubblicato su Facebook Scanna ha inoltre chiarito i “motivi che hanno spinto la me ventenne di 12 anni fa a non chiedere aiuto alle autorità”. Motivi che vanno dal contesto socioculturale di quel periodo, in cui il movimento #MeToo ancora non esisteva, alla paura di ritorsioni, fino all’isolamento professionale e al terrore della gogna pubblica.

Non è la prima volta che donne che lavorano nel mondo della pubblicità denunciano questo tipo di violenza. Già nel 2021 centinaia di lavoratrici, dopo un appello lanciato dalla pubblicitaria Zoe Scaman, avevano dichiarato di essere state vittime di molestie e discriminazioni sul luogo di lavoro da parte di colleghi uomini.

Storie di donne che ancora oggi fanno fatica a emergere per paura, ma che raccontano sempre di più la tossicità degli ambienti di lavoro in cui sessismo e misoginia sono ancora troppo presenti.

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