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Sfruttare il teatro come agente di trasformazione di una realtà senza voce, quella dei detenuti di Opera. Il loro racconto in questo video.
In Italia ci sono 193 prigioni che accolgono oltre 54mila detenuti a fronte di una capienza massima di 49.700 posti. Questo sovraffollamento e l’inquietante tasso di suicidi avvenuti dietro le sbarre (quasi uno a settimana dal 1992 ad oggi) fanno collocare l’Italia al sesto posto in Europa per la qualità dei suoi servizi in ambito detentivo.
Secondo Openpolis, l’associazione indipendente la cui mission è la trasparenza e che offre strumenti per la comprensione di dati e informazioni pubbliche, a rendere la situazione ancora più complessa sarebbe l’alto tasso di stranieri, il 33,6 per cento del totale, molto spesso in difficoltà per lingua e cultura. Solo il 4 per cento dei detenuti, infatti, frequenta corsi professionali o attività formative nel periodo di pena. Meno del 30 per cento lavora. Una condizione che va a incidere sia sui costi di gestione (quasi 150 euro al giorno a persona), ma anche sul tasso di reiterazione dei reati. Sono varie le associazioni e le organizzazioni, anche internazionali, che a più riprese hanno denunciato le condizioni di vita nelle prigioni italiane. Le istituzioni, per, sembrano non aver ancora trovato una soluzione definitiva diversa da indulti saltuari, amnistie o pene alternative alla detenzione.
“Laddove la politica fallisce, l’arte cerca di sopperire alle sue mancanze e quando trova una porta aperta ci riesce” (Suzanne Lofthus)
Il teatro in carcere è considerato un importante strumento antropologico, sin dagli anni Trenta del Novecento. Negli istituti di pena, infatti, i detenuti non sono solo reclusi fisicamente e a tempo pieno, ma vengono anche privati di qualsiasi forma di espressione individuale e relazionale. Ciò porta il carcere a essere un luogo di regressione in cui il recluso è isolato e costretto ad affidare la propria vita alle scelte di un’autorità, proprio come un bambino. Ecco perché, in tale contesto, l’azione drammaturgica diviene un potente strumento linguistico, educativo, capace di emancipare in modo costruttivo e corale le singole personalità.
“La prima volta che sono entrata in prigione ero pervasa da eccitazione e paura. Poi, un giorno, durante uno dei miei training un detenuto ha aperto una porta, cosa categoricamente proibita all’interno di un carcere. Si è giustificato dicendo “mi scusi mi ero dimenticato di essere in una casa di reclusione”. Ecco quello è stato il migliore momento della mia carriera”
È questo il caso dell’associazione Inside associazione detenuti Opera onlus che, in collaborazione con Dundas Foundation e Europassione per l’Italia, in occasione del Giubileo straordinario della misericordia, è riuscita a realizzare un progetto unico nel suo genere: mettere insieme i detenuti del carcere di Opera e le detenute di Bollate per uno spettacolo sulla vita di Gesù, scritto da Peter Hutely. Suzanne Lofthus è la regista che, da quasi vent’anni, ha scelto questa via per insegnare la libertà di scelta, di pensiero, di coscienza.
Sfruttare l’azione drammaturgica come agente di trasformazione di una società caratterizzata da una necessità comunicativa più accentuata che mai. Così il teatro stabile all’interno della Casa di detenzione di Opera ha saputo distinguersi nel panorama italiano come modello di recupero sociale.
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