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Bioplastiche che non impattano e che, anzi, permettono di chiudere il ciclo dei rifiuti in un’ottica di economia circolare. Abbiamo le tecnologie per il recupero di materia ed energia dalle acque reflue e dagli scarti alimentari.
Il packaging di domani sarà biodegradabile e a bassissimo impatto. Bottiglie, imballaggi per alimenti, pellicole realizzate con i biopolimeri ricavati dai processi industriali della filiera agroalimentare. Un recupero di materia e di energia, spesso da quelli considerati fino ad oggi rifiuti, anche legislativamente parlando, che in un’ottica di economia circolare ritornano a far parte del processo produttivo. È il caso del progetto dell’Enea (Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) Biocosì, che punta a utilizzare le acque reflue della filiera casearia per produrre bioplastica per imballaggi e packaging per la conservazione degli alimenti, biodegradabili e compostabili.
Il progetto realizzato dall’ente di ricerca e dalla start-up pugliese EggPlan, ha permesso di sviluppare un processo di separazione a membrana per il frazionamento del siero di latte e il successivo recupero delle sieroproteine, dei peptidi, del lattosio e dei sali minerali, oltre ovviamente all’acqua. Da qui il lattosio può essere ulteriormente lavorato per la produzione della bioplastica per il packaging. “Questa innovazione ispirata ai principi dell’economia circolare con l’obiettivo ‘zero rifiuti a fine processo’, risponde non solo ad esigenze di natura etica e ambientale ma anche economiche, legate ai costi elevati dello smaltimento dei reflui caseari, consentendo oltretutto di tagliare di circa il 23 per cento il costo unitario di produzione del biopolimero”, ha dichiarato Valerio Miceli della divisione biotecnologie e agroindustria dell’Enea in una nota stampa.
Un’innovazione che potrebbe dare enorme valore a ciò che oggi è solo un rifiuto e che rappresenta quasi l’80 per cento della lavorazione del latte per la produzione di burro e formaggi: le acque reflue casearie. Prive di tossicità, sono infatti ricchissime di lattosio, proteine e peptidi. Sostanze e molecole che possono essere intercettate e non semplicemente smaltite. “Questa proposta – spiega infatti Miceli – può rappresentare anche una fonte di ricchezza integrativa in termini di redditività per le stesse aziende casearie, per gli stakeholder operanti in filiera e per le Pmi innovative che mirano ad aumentare la competitività del territorio diversificando l’offerta di prodotto”.
Tutto il mondo della ricerca sta muovendo ampi passi verso il recupero di materia, in un processo industriale capace di essere realmente sostenibile. Il progetto Bioproto (Bioplastic production from tomato peel residues), sviluppato dall’Iit (Istituto italiano di tecnologia) e guidato dalla dottoressa Athanassia Athanassiou, ha studiato dei metodi per il recupero delle bucce di pomodoro e la consecutiva produzione di biopolimeri che potranno essere impiegati per la realizzazione di packaging sostenibile. Anche al Cnr-Istm (Consiglio nazionale delle ricerche – Istituto di scienze e tecnologie molecolari) con Nicoletta Ravasio sta studiando una plastica rinforzata con fibra vegetale derivata dall’olio di canapa.
Se da un lato ci si trova ad avere un’enorme disponibilità di materia prima (gli scarti appunto), dall’altro ci si deve confrontare con processi industriali ancora costosi, poco competitivi. Anche se secondo European Bioplastics, associazione europea della filiera delle bioplastiche, la capacità di produzione mondiale delle bioplastiche è destinata a crescere di circa il 50 per cento nel giro di qualche anno, arrivando a 6,1 milioni di tonnellate nel 2021.
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