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L’organizzazione palestinese Hamas ha modificato per la prima volta in 30 anni il proprio programma politico. Gelo da Israele.
L’organizzazione palestinese Ḥarakat al-Muqawama al-Islamiyya, più nota con l’acronimo Hamas, ha approvato per la prima volta nella sua storia una modifica al proprio programma politico. Il Movimento Islamico di Resistenza ha infatti accettato il principio che porta a limitare lo stato palestinese alle frontiere del 1967, ovvero alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza. Insistendo al contempo sul carattere “politico” e non religioso della propria battaglia contro Israele.
La svolta è stata annunciata attraverso il sito dello stesso movimento, con un documento che presenta 42 punti, pubblicato in arabo e in inglese, che verrà allegato alla Carta redatta nel 1988. Hamas ha spiegato infatti che “l’accettazione di uno stato palestinese interamente sovrano e indipendente, sulla base delle frontiere del 4 giugno 1967, con Gerusalemme capitale, rappresenta una formula sulla quale esiste un consenso a livello nazionale”.
La notizia è arrivata proprio mentre a Doha si teneva una conferenza stampa del leader di Hamas in esilio, Khaled Mechaal, ritrasmessa in diretta nella striscia di Gaza. Il movimento islamista è infatti considerato un’organizzazione terroristica da Stati Uniti, Unione europea, Canada, Egitto e Giappone, assieme ovviamente ad Israele. Ora, modificando il proprio statuto a quasi trent’anni dalla sua approvazione, il giudizio di parte della comunità internazionale potrebbe cambiare.
Non quello di Tel Aviv però: un portavoce del primo ministro della nazione ebraica, Benjamin Netanyahu, ha già bollato il documento come “una menzogna. Cercano di prendere in giro il mondo, ma non ci riusciranno”. “La nostra carta del 1988 rappresentava un appello alla mobilitazione nel corso della prima Intifada. Non teneva conto della percezione internazionale. E gli israeliani hanno sempre sfruttato questo fattore contro di noi”, ha ammesso Ahmed Youssef, considerato un esponente moderato di Hamas.
I “territori del ’67” hanno rappresentato il cuore di ogni negoziato e disputa nel conflitto arabo-israeliano. Il 29 novembre 1947, l’Onu adottò un piano di divisione della Palestina in due stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo, mentre Gerusalemme veniva sottoposta ad un controllo internazionale. Il 14 maggio dell’anno successivo, al termine del mandato britannico sulla Palestina, il presidente del Consiglio nazionale ebraico, David Ben Gurion, proclamò l’indipendenza dello stato d’Israele. Il giorno dopo, scoppiò la prima guerra con i palestinesi: le armi tacquero in seguito grazie agli accordi di Rodi.
Pochi anni dopo, il 24 aprile 1950, la Cisgiordania venne annessa dalla Giordania e l’Egitto prese il controllo della striscia di Gaza. Nell’autunno del ’56, dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del presidente egiziano Nasser, esplose quindi il secondo conflitto arabo-israeliano, concluso con l’evacuazione del Sinai da parte dell’esercito di Tel Aviv. Tra il 5 e il 10 giugno 1967, quindi, scoppiò la terza guerra, nota come quella dei “Sei giorni”: Israele occupò nuovamente il Sinai, assieme striscia di Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est e alture del Golan.
Il 22 novembre dello stesso anno, l’Onu adottò la celebre risoluzione 242, che prevedeva l’evacuazione dei territori occupati, in cambio del riconoscimento mutuale di tutti gli stati del Medio Oriente. È per questo che la decisione di Hamas di accettare le frontiere del ’67 rappresenta un passo storico, che teoricamente potrebbe porre le basi per una futura, definitiva soluzione.
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