
Comprare su misura, con lentezza, e con un occhio alla tradizione. Questa la ricetta di Piercarlo Grimaldi, Antopologo dell’abito e Magnifico Rettore della moda Green Pea.
In un momento di “pausa” forzata, anche il settore moda ha capito che deve cambiare: trasparenza, tracciabilità e circolarità sono le parole chiave per tornare a nuova vita.
Le città non sono mai state così silenziose, il cielo pulito, l’acqua dei fiumi limpida, gli animali liberi di girare senza paura nelle aree urbane. Queste immagini che abbiamo tutti negli occhi sono forse le uniche positive, quasi poetiche, in questo periodo di lockdown forzato. Si tratta di una fase necessaria che ci obbliga a riflettere su come in quasi tutti i settori, sicuramente nella moda, le esigenze dei consumatori stiano cambiando e su come le aziende dovranno impegnarsi a lavorare prestando maggiore attenzione alla riduzione dell’impatto ambientale e al rispetto dei diritti dei fornitori nella filiera e degli stessi consumatori.
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Dalla tragedia del Rana Plaza sono passati sette anni: i grandi player del settore moda sono oggi chiamati nuovamente a dare una risposta, un chiaro segno che la sostenibilità non significa solo usare un po’ di cotone biologico, ma molto di più. Il Rana Plaza non è stato né il primo né l’ultimo disastro nel settore ma certamente è il più ricordato perché dal 24 aprile 2013 i grandi player della moda sono stati obbligati ad assumersi le proprie responsabilità verso i loro sub-fornitori, come quelli nella fabbrica crollata a Dhaka. A partire da quel momento l’invisibile è diventato visibile.
Con la pandemia oggi siamo davanti a un nuovo Rana Plaza, che da un lato rappresenta una grave emergenza, questa volta globale, dall’altro mette le aziende davanti all’opportunità di mostrare che dare priorità ai diritti dei lavoratori e dei consumatori è possibile, iniziando ad esempio a non cancellare gli ordini nei Paesi produttori dei grandi retailer del mass market, come ben raccontano le numerose fonti attendibili disponibili sul web.
Il 23 aprile un gruppo di 65 organizzazioni della società civile, rappresentato dal Fair trade advocacy office, hanno proposto la loro ‘shadow strategy’ (intesa come una strategia non ufficiale, nascosta) con una serie di azioni legislative e non, che potrà servire all’Unione europea per implementare le nuove misure di protezione ambientale e sociale prevedendo standard più elevati all’interno delle catene del valore, con una strategia sempre più armonizzata a livello europeo.
Su LifeGate è stato già menzionato che nelle ultime settimane numerosi opinion leader, a partire da Giorgio Armani con la sua lettera al sito Wwd, hanno parlato del fatto che un “rallentamento attento e intelligente sia la sola via d’uscita”. Per guarire la moda occorre trovare insieme alle istituzioni le risposte ad alcune domande che sono diventate oggi fondamentali. Come dare nuove certezze ai consumatori delle nuove generazioni che chiedono sempre più spesso ai brand “cosa c’è dietro al prodotto”, proteggendoli dal rischio di greenwashing – sempre più diffuso – che arriva dalle aziende che “dicono” tanto ma “fanno” ancora troppo poco?
Come gestire il problema della sovrapproduzione? Come ripensare le tempistiche della moda? In questa fase importantissima è ancora più evidente la necessità di un aggiornamento della normativa sui temi della gestione della vita del capo: sembra questa la direzione segnata dal governo francese con la legge anti-waste emanata a febbraio 2020, che – se interpretata anche da altri Paesi – potrebbe aprire una nuova strada verso una maggiore trasparenza, tracciabilità e circolarità del settore moda. Come mettere al centro il capitale umano e come rendere le filiere più resilienti anche grazie – ma non solo – alle tecnologie? Insomma, per guarire la moda è oggi fondamentale dare maggiore importanza agli ambiziosi progetti multi-attoriali che si stanno interrogando su come riorientare il settore verso una maggiore trasparenza, tracciabilità e circolarità.
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