Cooperazione internazionale

Etiopia, la Fao ha un piano contro la peggior siccità da 30 anni

L’idea di aiutare le popolazioni “in loco” per far sì che decidano di restare nel loro paese invece di migrare verso le coste europee è sempre più diffusa. Del resto questa teoria accontenta sia coloro che vogliono difendere i propri confini nazionali, sia coloro che hanno uno spirito di solidarietà marcato e che credono nella

L’idea di aiutare le popolazioni “in loco” per far sì che decidano di restare nel loro paese invece di migrare verso le coste europee è sempre più diffusa. Del resto questa teoria accontenta sia coloro che vogliono difendere i propri confini nazionali, sia coloro che hanno uno spirito di solidarietà marcato e che credono nella cooperazione internazionale. Bene, allora perché non cominciare parlando di ciò che si sta verificando in Etiopia, uno dei paesi del Corno d’Africa?

 

La peggior siccità da 30 anni

Il fenomeno meteorologico El Nino – legato al riscaldamento straordinario delle acque superficiali degli oceani e che condiziona il meteo e il clima globale – sta causando una delle peggiori e lunghe siccità nella storia del paese africano che, a sua volta, sta distruggendo i raccolti e decimando il bestiame. La peggiore da almeno 30 anni. E così oltre 10 milioni di etiopi (su una popolazione totale di 94 milioni) si sono ritrovati a vivere in una condizione di insicurezza alimentare grave. La denuncia è arrivata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) che, parallelamente, ha presentato un piano d’intervento per far fronte all’emergenza.

 

“Le previsioni per il 2016 sono davvero pessime”, ha detto Amadou Allahoury, rappresentante della Fao in Etiopia. “Il persistere della siccità anche all’inizio del 2016 andrebbe a colpire anche il settore della pastorizia e, di rimando, gli allevatori la cui sicurezza alimentare dipende dalla disponibilità di pascoli e punti di abbeveramento per il bestiame. Dopo la perdita di due raccolti consecutivi, il buon esito del raccolto della stagione che sta per iniziare è fondamentale per evitare l’ulteriore peggioramento della situazione”.

 

50 milioni di dollari, per partire

Il piano da 50 milioni di dollari (circa 46 milioni di euro) per proteggere gli allevamenti e far ripartire la produzione agricola dovrebbe assistere 1,8 milioni di lavoratori. Ma non è che l’inizio di un percorso verso la normalità. I campi coltivati hanno fatto registrare una riduzione del raccolto non inferiore al 50 per cento, con punte anche del 90 per cento che hanno praticamente bloccato l’economia di intere regioni etiopi. Inoltre l’assenza di precipitazioni ha già causato la morte di centinaia di migliaia di animali da allevamento.

 

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Una casa tradizionale hamer, in Etiopia

 

Tra gennaio e giugno, la stagione meher, si prevede che oltre 130mila famiglie riceveranno assistenza, ad esempio ricevendo sementi e partecipando alla costruzione di impianti di irrigazione su piccola scala finalizzati alla nascita di tanti piccoli orti domestici che dovranno essere curati da gruppi di donne. Un modo per cercare di rendere indipendenti i nuclei famigliari e dar loro accesso a servizi di microcredito.

 

Una persona dovrebbe far rumore anche se muore in Etiopia

Uno degli obiettivi principali secondo la Fao è la rinascita dei mercati locali, sia per migliorare la qualità dei semi, sia per rendere più facile e veloce la distribuzione degli alimenti e dei mangimi per gli animali in caso di emergenza. Un modo per contribuire a sviluppare la resilienza delle comunità locali a fenomeni quali la desertificazione, sempre più minacciosa a causa del riscaldamento globale. Agire in Etiopia, dunque, significa cominciare a mettere in atto quanto promesso alla conferenza sul clima di Parigi, iniziare a spendere una piccola parte di quei 100 miliardi di dollari all’anno (altro che 50 milioni) per aiutare i paesi in via di sviluppo ad adattarsi ai cambiamenti climatici e a fronteggiare i disastri e le calamità (più o meno) naturali.

 

La Fao da sola non può tutto. I governi dei paesi occidentali che da mesi cercano di rispondere all’aumento del flusso di persone che migrano dovrebbero cominciare a capire davvero quali siano le cause che spingono, da anni, migliaia di persone a mettere a repentaglio la propria vita mettendosi in viaggio: perché una persona dovrebbe far rumore anche se perde la vita a casa sua, in Etiopia, non solo nel mar Mediterraneo. Una di queste ragioni è che la vita che hanno deciso di abbandonare non ha prospettive. Non solo per mancanza di lavoro o di crescita personale, ma perché spesso, a casa loro, manca uno dei presupposti fondamentali alla sopravvivenza: il cibo, l’acqua, la vita stessa.

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