Diritti umani

Indice globale della fame 2017: l’instabilità politica è il grande nemico

Nonostante una generale diminuzione della fame, in 52 Paesi la situazione resta allarmante. Una situazione multidimensionale, da affrontare con “visione globale e ottimistica”, nelle parole del presidente del Cesvi, Giangi Milesi, che si occupa dell’edizione italiana dell’Indice

Se è vero che il problema della denutrizione è in calo nel mondo, è altrettanto vero che il numero di persone che soffrono la fame resta alto in 52 paesi, e in particolare nell’Asia meridionale e nell’Africa subsahariana. Anche il tasso di mortalità nei bambini sotto i cinque anni è sceso dall’8,2 per cento al 4,7 per cento (dal 2000), ma il blocco nella crescita dei bambini dovuto alla malnutrizione resta altissimo in paesi come l’Eritrea, Timor Est e Burundi. La situazione è drammatica  anche nello Sri Lanka, in Gibuti e Sud Sudan, dove il deperimento colpisce tra il 21,4 per cento e il 27,3 per cento dei bambini al di sotto dei cinque anni.

È questo il quadro contrastante emerso dall’Indice globale della fame 2017 (Global hunger index), presentato nel corso del G7 Agricoltura di Bergamo, alla presenza del commissario europeo per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan. Uno strumento importante per affrontare un problema che affligge 815 milioni di persone e per individuare le zone in cui è urgente intervenire, mettendo in campo soluzioni e progetti. Ne abbiamo parlato con Giangi Milesi, presidente di Cesvi, la ong italiana in prima linea nella lotta alla fame e curatrice dal 2008 dell’edizione italiana dell’Indice.

Indice Globale della Fame 2017 - Cartina del mondo
L’iIndice globale della fame 2017 è redatto da International Food Policy Reasearch (IFPRI), Concern Worldwide e Welthungerhilfe.

 

Nel nuovo Indice globale della fame si registra una diminuzione della fame nel mondo, ma in molti paesi i livelli restano allarmanti. Quali sono gli ostacoli principali al miglioramento?
In questo momento il nemico più grande nella lotta alla fame è l’instabilità politica, dettata da governi che non governano e guerre non dichiarate. In luoghi come Siria e Libia, per esempio, è impossibile avere successo oggi. Così come in India, dove il freno è dato dalle caste, che portano al fenomeno della schiavitù.

Giangi Milesi presidente Cesvi
Giangi Milesi, presidente della ong Cesvi, che da oltre trent’anni fa della lotta alla fame il cuore del suo lavoro. Oggi è attivo in 23 Paesi e nei contesti più critici, dove la fame mette a rischio la vita di migliaia di persone ©Cesvi

Sappiamo che le cause della fame nel mondo sono molte e complesse. Tra queste ci sono anche i cambiamenti climatici. Che peso hanno sul fenomeno?
I cambiamenti climatici incidono pesantemente, perché, in primo luogo modificano le stagioni. A lunghi periodi di siccità succedono piogge così violente da creare allagamenti ed erosioni che, ovviamente, causano gravi danni sulle coltivazioni. Noi abbiamo lottato per anni nel continente asiatico contro le alluvioni, che hanno causato milioni di sfollati. Oggi stiamo combattendo contro la siccità in tutto il Corno d’Africa e Africa centrale, dove questi fenomeni vanno ad aggiungersi all’instabilità politica. In un’agricoltura già povera tutto ciò ha effetti devastanti, perché i contadini e i pastori perdono tutto e abbandonano il territorio. Questo innesca fenomeni complessi, come il land grabbing e i grandi processi migratori.

L’atteggiamento dei negazionisti dei cambiamenti climatici, come Donald Trump, che impatto può avere sugli sforzi che si stanno mettendo in atto anche con la Cop 23 in corso in questi giorni?
Il fatto che la presidenza americana faccia l’occhiolino a questo genere di politiche, ovviamente, genera preoccupazione. Una defezione americana dall’Accordo di Parigi avrebbe anche una ricaduta sulla produzione di carbone, che è drammatica per l’effetto serra che produce. Tra l’altro proprio gli Americani stanno pagando un prezzo terribile per questi cambiamenti climatici: i Caraibi sono una delle aree più tormentate da uragani violentissimi ed esportano El Niño in tutto il mondo, con le conseguenze che sappiamo. È anche vero, però, che il negazionismo ormai è stato messo con le spalle al muro e che persino la Cina comincia a dimostrare attenzione, anche se, per ora, solo a parole.

Paesi con livelli di fame allarmanti o estremamente allarmanti - GHI 2017

Qual è il ruolo del Ghi in questo scenario?
La funzione è mantenere alta l’attenzione su questa complessità. Non esistono ricette semplici nella lotta alla fame, che è un fenomeno multidimensionale, ma bisogna mantenere una visione globale e ottimistica.
La mancanza di fiducia penalizza molto gli sforzi, mentre gli indicatori dimostrano che si può sconfiggere la fame e che il cibo per tutti ci può essere. Bisogna solo distribuirlo meglio, superare le diseguaglianze, sviluppare una politica di pace e combattere i cambiamenti climatici.

L’obiettivo Fame Zero delle Nazioni Unite nel 2030 è realistico?
In modo generalizzato credo di no. Ci sono ancora troppi buchi neri ed è necessario un grande sforzo per cambiare alcune strategie e far sì che i diritti umani siano rispettati. Esistono anche Paesi, come il Congo, la Libia, il Sudan e la Siria (indicati in grigio sull’indice, ndr) in cui mancano proprio i dati e ciò fa presupporre che la situazione sia drammatica.

Paesi con dati insufficienti GHI 2017 - Libia Somalia Burundi
Paesi con dati insufficienti nel Ghi 2017 – Libia Somalia Burundi

Le sfide per il futuro quali sono? E qual è il vostro approccio?
Il metodo ancora valido è quello di pensare globalmente e agire localmente. Noi perseguiamo la resilienza delle comunità nei nostri progetti agricoli, rendendo protagonisti i beneficiari. Parallelamente portiamo avanti anche interventi di emergenza, per distribuire cibo dove le situazioni sono molto critiche, ma lo sforzo è, principalmente, quello di sostenere progetti, che diano le risorse necessarie ai contadini per non abbandonare le terre e riprendere o avviare nuove attività. Un tema cruciale nel fenomeno è stato proprio il sorpasso della popolazione urbanizzata su quella delle campagne, dove c’è più povertà. Questa concentrazione crea ulteriori danni, come nel caso di Haiti, dove il terremoto (del 2010, ndr) ebbe effetti devastanti proprio a causa di un tessuto urbano costruito sulle lamiere e su terreni franosi.

Il progetto di Cesvi in Zimbawe - arance ©Cesvi
Il progetto di Cesvi in Zimbawe per riavviare la coltivazione di arance, interrotta a causa di siccità e alluvioni ©Cesvi

Ci può fare qualche esempio dei tanti progetti che seguite nel vostro impegno di lotta alla fame?
Un progetto, che è diventato anche un caso studio di grande interesse, è quello che stiamo portando avanti in Zimbabwe, al confine col Botswana. Qui il Cesvi è stato contattato dalla Commissione europea per rianimare la produzione delle arance, interrotta a causa della morte degli aranceti come conseguenza dei cambiamenti climatici. Oltre all’intervento tecnologico, che ha permesso di recuperare le acque sotterranee e irrigare i campi, il lavoro più importante è stato quello di affiancare la comunità locale per consentirle di entrare nel mondo commerciale e poter gestire autonomamente l’attività. Nella Foresta Amazzonica, invece, ci occupiamo di estrazione della noce del Brasile, che è un super alimento, attraverso un progetto di sviluppo e conservazione della foresta stessa. Da diversi anni abbiamo, inoltre, dei programmi di sviluppo democratico nella trial zone del Myanmar, nella ex Birmania, colpita dalle conseguenze di siccità, alluvioni ed erosioni. Qui abbiamo favorito la costituzione di comitati di villaggio, che decidono sulle attività agricole.

Un altro aspetto su cui puntate molto è l’emancipazione femminile anche in agricoltura.
Sì, perché bisogna tener presente che l’80 per cento della forza lavoro impiegata in agricoltura è rappresentata da donne, ma solo il 2 per cento di loro è proprietaria dei terreni. Riportare a loro i diritti di proprietà è un modo per garantire uno sviluppo agricolo, anche perché sono più attente all’investimento e sono campionesse nella restituzione dei crediti. In sintesi le donne offrono maggiori garanzie di successo sui progetti che puntano sul loro protagonismo.

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