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Nel 2018, le compagnie petrolifere e del gas hanno investito 50 miliardi di dollari in progetti che nuocciono al clima e ai loro stessi investitori.
Quando è stato firmato lo storico Accordo di Parigi sul clima, anche le multinazionali del petrolio e del gas hanno promesso di fare la loro parte per la transizione energetica. Per il momento, però, sembrano soltanto parole. Il duro atto d’accusa arriva da un nuovo report dell’autorevole think tank britannico Carbon Tracker Initiative.
I ricercatori hanno preso in esame 71 diverse compagnie petrolifere e del gas, incluse le “big” note in tutto il mondo, come Shell, Exxon Mobil, Gazprom, Total, PetroChina. Ma come si fa a capire se si stanno impegnando per il clima? Semplice, andando a scandagliare tutti i progetti approvati tra l’anno scorso e quest’anno e distinguendo tra quelli che sono coerenti con l’Accordo di Parigi e quelli che, invece, non lo sono.
New report: ‘Breaking the Habit’ contrasts the rhetoric of #ParisAgreement ‘alignment’ from #oil & #gas companies, vs the reality: $50bn in new project #capex since 2018 which undermines climate goals & threatens shareholder returns https://t.co/igcmMKE0bj pic.twitter.com/QKLxjnHvWf
— Carbon Tracker (@CarbonBubble) September 6, 2019
Il quadro che ne emerge è impietoso. Nel 2018, queste aziende hanno speso 50 miliardi di dollari per nuovi impianti che economicamente non avrebbero alcun senso in un mondo che contiene l’innalzamento delle temperature “ben al di sotto” dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. Qualche esempio? I 13 miliardi di dollari spesi da Shell per estrarre gas naturale in Canada, o l’enorme campo petrolifero in acque profonde Zinia 2, 150 chilometri al largo delle coste dell’Angola, a cui sta lavorando una cordata composta da BP, Total, Exxon Mobil ed Equinor. O ancora, tutte le attività di estrazione di petrolio da sabbie bituminose.
Il poco invidiabile primato spetta a Exxon, che ha stanziato oltre il 90 per cento del suo potenziale di spesa, da qui al 2030, per nuovi progetti che non sono allineati agli obiettivi di Parigi. Ma ci sono anche Shell (70 per cento), Total (67 per cento), Chevron (60 per cento), BP (57 per cento) e l’italiana Eni (55 per cento).
L’aspetto che stupisce di più è che questi progetti non convengono nemmeno sul piano puramente economico. E i loro azionisti se ne sono già accorti, come dimostra la coalizione Climate Action 100+, che riunisce 320 investitori.
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Per rispettare gli impegni presi dalla comunità internazionale, infatti, la domanda di combustibili fossili dovrà necessariamente diminuire. Ciò significa che, una volta entrati a regime, solo gli impianti a basso costo riusciranno a generare profitti. Tutti gli altri andranno in perdita. È il caso delle sabbie bituminose ad Aspen (Canada), un progetto da 2,6 miliardi di dollari voluto da ExxonMobil e Imperial Oil, la cui tabella di marcia è già slittata. Secondo le stime di Carbon Tracker, per aggiudicarsi un ritorno del 15 per cento il prezzo del petrolio dovrà superare gli 80 dollari al barile. Oggi si aggira sui 60 dollari al barile.
Se continueranno così, conclude il report, le big oil rischieranno di perdere fino a 2.200 miliardi di dollari entro il 2030.
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