Proteste in Cina, gli operai fuggono dalle fabbriche e i cittadini riempiono le piazze contro le politiche zero Covid

Per la prima volta, le proteste in Cina chiedono le dimissioni di Xi Jinping e la fine del Partito. E in migliaia fuggono dalla fabbrica degli iPhone.

Aggiornato al 29 novembre 2022

  • La Cina continua ad applicare la politica dello zero Covid, ma si moltiplicano le proteste dei cittadini estenuati dal lockdown: per la prima volta si chiedono le dimissioni di Xi Jinping.
  • Migliaia di operai stanno abbandonando lo stabilimento della Foxconn di Zhengzhou, dove si producono milioni di iPhone.
  • Il racconto di chi scappa è censurato dal governo cinese ma una di queste testimonianze è stata tradotta in tutto il mondo.

La Cina sembra essersi fermata al 2020, l’anno della pandemia da Covid-19. Il 24 novembre l’intera città di Zhengzhou, popolata da dieci milioni di persone, è stata isolata, e lo stesso è successo anche in alcune aree della capitale Pechino e di altre megalopoli cinesi. Sono centinaia di milioni le persone in stato di isolamento a fronte di 31mila contagi annunciati dal governo e 5 morti: si tratta del numero più elevato di casi di contagio da due anni a questa parte.  Ma si tratta anche di un numero con cui altri paesi del mondo convivono abbastanza normalmente.

Per questo, gli estenuanti lockdown hanno generato numerose proteste in Cina, partecipate da migliaia di cittadini scesi in piazza che, per la prima volta, invocano apertamente le dimissioni del presidente Xi Jinping e la fine del dominio del Partito comunista. Un evento raro che mette in discussione l’infallibilità di Xi Jinping a un mese dal congresso che di fatto lo ha reso presidente a vita. Era dai tempi delle manifestazioni di piazza Tienanmen del 1989 che non si registravano proteste di questa portata.

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La Foxconn conta 13 impianti produttivi in Cina © Daniel Berehulak/Getty Images

Crescono le proteste in Cina contro i lockdown

Nell’ultimo mese sono state organizzate diverse proteste contro la politica dello “zero covid” introdotta dal presidente Xi Jinping: per evitare il diffondersi di nuovi focolai da coronavirus, i cinesi sono infatti costretti ad affrontare isolamenti massicci e inflessibili mentre nel resto del mondo la vita è tornata alla normalità. Il tentativo di eliminare qualunque accenno al problema Covid sta sfuggendo di mano, come dimostrano le immagini televisive diffuse in Cina dei Mondiali di calcio in Qatar: l’emittente statale cinese, infatti, ha censurato le immagini dei tifosi senza mascherina sugli spalti.

L’ondata più recente di proteste sembra essere stata innescata da un incendio a Urumqi, capitale della regione occidentale dello Xinjiang, accaduto sabato 26 novembre, in cui sarebbero morte 10 persone. Apparentemente, i vigili del fuoco non sono riusciti a raggiungere un edificio che stava andando a fuoco a causa delle restrizioni da Covid, restrizioni che avrebbero pure impedito agli inquilini di fuggire. In breve tempo, le manifestazioni contro i rigidi protocolli governativi si sono diffuse nel resto della Cina: dopo l’incendio, un manifestante di Shanghai ha mostrato un foglio di carta con il numero 10 scritto sia in cinese che in uiguro.

I cittadini alzano fogli bianchi per simboleggiare il divieto di parlare

Il gesto del foglio bianco è stato emulato da centinaia di cittadini cinesi che sono scesi per le strade di Shangai con in mano fogli di carta bianca per simboleggiare la loro incapacità di parlare, mentre altri hanno cantato canzoni come Do you hear the people sing?, l’iconico inno di protesta nel film de Les miserables, e acceso candele. Alle persone viene impedito di scattare foto delle manifestazioni con i cellulari e un giornalista della Bbc è stato arrestato mentre documentava le proteste. Dopo il giornalista, le autorità cinesi hanno arrestato altri manifestanti ma non hanno rilasciato alcuna dichiarazione in merito. Intanto, alcune restrizioni in diverse città sono state allentate.

Intanto le proteste hanno cominciato a dilagare sull’intero territorio: una delle manifestazioni più partecipate è stata quella inscenata a Guangzhou, città portuale di 15 milioni di abitanti a nord di Hong Kong, dove i cittadini hanno lanciato transenne contro le forze dell’ordine vestite con tute bianche contro la possibilità di contagio. Anche nella capitale, Pechino, la gente è stata invitata a restarsene in casa e sono stati ordinati test di massa per prevenire nuovi focolai ma le proteste sono affiorate anche nelle città più coinvolte dalle draconiane restrizioni anti-covid, come Wuhan e Shangai. Inoltre, secondo l’Associated Press, nonostante i tentativi di repressione da parte della polizia, le proteste sarebbero in corso in almeno 50 università del paese. In una di queste, a Pechino, la protesta è stata innescata da una studentessa italiana.

La fabbrica degli iPhone alle prese con il Covid

Ma la protesta che ha catturato maggiormente l’attenzione mediatica è quella scoppiata all’interno dello stabilimento industriale della taiwanese Foxconn, l’azienda che assembla gli iPhone e moltissimi altri prodotti tecnologici. Qui, centinaia di operai hanno protestato violentemente contro le condizioni di lavoro e per il timore di essere contagiati da altri lavoratori positivi al coronavirus. La sede di Foxconn coinvolta dalle proteste è a Zhengzhou, nella Cina centrale: si tratta di uno stabilimento enorme che ospita circa 200mila lavoratori, che vivono in dormitori costruiti apposta. Da ottobre, lo stabilimento è in lockdown a causa dei contagi che si sono diffusi nell’azienda.

Foxconn ha adottato misure rigidissime per non interrompere la produzione, introducendo un sistema “a bolla” e costringendo i dipendenti a vivere e lavorare in isolamento, senza avere contatti con l’esterno. Le tensioni sono iniziate quando ai lavoratori malati è stato comunicato che non avrebbero ricevuto il premio di produzione. Nello stesso periodo è iniziata la fuga di migliaia di lavoratori, evasi dalla fabbrica per timore di rimanere settimane o addirittura mesi bloccati al suo interno, come era già successo in altre occasioni.

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Il 70 per cento degli iPhone venduti in tutto il mondo vengono prodotti dalla Foxconn in Cina © Daniel Berehulak/Getty Images

La gestione miope del Covid da parte della Foxconn

La Foxconn in Cina produce più del 70 per cento degli iPhone venduti in tutto il mondo. La pandemia ha rallentato il ritmo di produzione, tanto che la Apple ha annunciato ritardi nella consegna dei nuovi modelli di iPhone14, l’ultimo smartphone della serie. Per evitare di bloccare la produzione per intero, Foxconn ha anche assunto 100mila nuovi lavoratori con l’obiettivo di sostituire temporaneamente i contagiati. Ma ciò non ha fatto altro che alimentare l’esasperazione dei lavoratori in isolamento.

Le immagini delle violente proteste in Cina portate avanti dagli operai contro le forze dell’ordine in tuta anti-contagio hanno fatto il giro del mondo. Ma poco si è detto delle migliaia di operai che hanno superato le recinzioni e sono tornati a piedi a casa, pur di scappare dall’isolamento imposto dalla Foxconn. Le loro testimonianze sono state censurate sui social network cinesi e, secondo la Cnn, l’azienda si è offerta di pagare gli operai purché lascino lo stabilimento e cessino le proteste.

La testimonianza di chi è fuggito dalla fabbrica

Il racconto di un testimone, però, è sfuggito alla censura ed è stato tradotto nel resto del mondo. Dalla storia di questo operaio si viene a sapere come la fabbrica, attiva 24 ore su 24, il 14 ottobre abbia prima provato a contenere i contagi creando un percorso obbligato dai dormitori agli impianti (un tragitto che, date le dimensioni dell’impianto, può essere percorso in un’ora), impedendo agli operai dei diversi turni di avere contatti tra di loro; poi, quando fu chiaro a tutti che questa misura non era più sufficiente, l’azienda comunicò che gli operai non potevano più mangiare insieme in mensa. Così ciascuno di loro cominciò a ricevere il pasto direttamente nei dormitori.

Finito in isolamento, il protagonista della storia non potè più recarsi alla fabbrica e quando si accorse che i corridoi del dormitorio si stavano riempiendo di rifiuti e cibo avanzato, capì che il controllo dei contagi era sfuggito di mano ai responsabili dello stabilimento. Decise allora di scappare dalla fabbrica: uscito da un buco nella rete metallica indicatogli da un collega, l’operaio camminò per 19 ore prima di lasciarsi la città alle spalle e tornare finalmente dalla sua famiglia.

Una testimonianza che richiama alla mente dei lettori scene di film quali “Alcatraz” o “Fuga di mezzanotte” ma che invece è al straordinaria realtà di una delle più grandi fabbriche del mondo, responsabile della produzione di uno dei beni di consumo più venduti in assoluto. Ciò che sta succedendo in Cina è sicuramente un’occasione per riflettere sulle distorsioni della globalizzazione.

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