Domenica 12 giugno si va al voto per cinque quesiti referendari sulla giustizia.
Le domande riguardano la magistratura, l’incandidabilità e la custodia cautelare.
Sarà necessario il quorum del 50 per cento degli aventi diritto al voto più uno affinché sia convalidato il risultato.
Domenica prossima, 12 giugno, gli italiani saranno nuovamente chiamati alle urne, per esprimersi su cinque quesiti referendari tutti riguardanti il settore della giustizia. In particolare, tre referendum riguarderanno la magistratura (riforma del Consiglio superiore, valutazione dell’operato dei magistrati, separazione delle carriere), mentre gli altri due toccheranno rispettivamente il tema della custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza da ruoli politici per le persone condannate per reati di mafia, terrorismo e contro la pubblica amministrazione a due o più anni di reclusione, e per ogni altro reato punito con una pena massima non inferiore a quattro anni.
Lo scoglio del quorum
Sulla validità dei referendum penderà l’obbligo del raggiungimento del quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto di voto. Sarà proprio questa la sfida più dura da superare per i promotori, la Lega di Matteo Salvini e il Partito Radicale: a pesare potrebbe essere alla fine la decisione della Corte Costituzionale di non ammettere i quesiti referendari su cannabis ed eutanasia, che avrebbero forse portato più persone alle urne perché considerati temi più “popolari”.
Referendum sulla giustizia: le ragioni del “sì” e del “no”
— Claudio Borghi A. (@borghi_claudio) May 25, 2022
La riforma del Consiglio superiore della magistratura
Nello specifico, il quesito sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura (Csm) prevede che, in caso di vittoria del sì, venga abrogato l’obbligo, per un magistrato che voglia essere eletto, di trovare da 25 a 50 firme per presentare la candidatura. L’attuale obbligo impone a coloro che si vogliano candidare di ottenere di fatto il beneplacito delle correnti o, il più delle volte, di essere ad esse iscritti. Con il sì, tutti i magistrati potranno proporsi come membri del Csm presentando semplicemente la propria candidatura. Secondo i proponenti, che vogliono limitare la forza del cosiddetto correntismo “avremmo così votazioni che mettono al centro il magistrato e le sue qualità personali e professionali, non gli interessi delle correnti o il loro orientamento politico”.
Le ragioni del “no”. Questo è probabilmente il quesito che provoca meno contrasti: il peso delle correnti all’interno della magistratura è riconosciuto anche da chi alla fine voterà no a questo referendum, o sceglierà l’astensione. L’obiezione che viene posto riguarda più che altro l’efficacia dell’eventuale cambiamento: è evidente infatti che il magistrato che non riesca a mettere insieme 25 firme a sostegno non avrà di fatto alcuna chance di essere eletto presentandosi da solo. Di fatto, dunque, la vittoria del sì non porterebbe cambiamenti sostanziali.
L’equa valutazione dei magistrati
Per quanto riguarda l’equa valutazione dei magistrati, con il sì al referendum viene riconosciuto anche ai membri “laici”, cioè avvocati e professori, di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati: oggi infatti solo i magistrati hanno il compito di giudicare gli altri magistrati.
Le ragioni del “no”. Chi, in politica e nella società civile, si sta spendendo per il “no”, fa notare che la possibilità che un magistrato possa essere giudicato nelle sue funzioni da un membro laico, ad esempio un avvocato, vada a inficiare automaticamente l’indipendenza del sistema giudiziario: chi dice che un magistrato non possa essere influenzato nel proprio operato, se sa che la propria carriera dipende anche da personalità esterne al proprio ruolo?
La separazione delle carriere
Il quesito sulla separazione delle carriere dei magistrati, sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti prevede che il magistrato debba scegliere all’inizio della carriera quale funzione esercitare, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. Di fatto, chi sceglierà di fare il giudice, non potrà più cambiare idea e diventare pubblico ministero, e viceversa.
Le ragioni del “no”. Questo, secondo i costituzionalisti contrari alla norma, comporta però un problema: la Costituzione prevede un unico accesso alla carriera della magistratura, tanto per i pm quanto per i giudici. La vittoria del sì sarebbe dunque inutile senza una riforma costituzionale, e anzi potrebbe essere foriera di molti ricorsi da parte di chi vedrebbe limitate le proprie possibilità di carriera.
Un ulteriore rischio potrebbe essere quello di “isolare” i giudici inquirenti, rendendo il canale di chi compie indagini “impermeabile” rispetto alla funzione giudicante, e viceversa, con possibili conseguenze anche sull’esperienza e la “visione d’insieme” di ciascun magistrato.
La custodia cautelare
Molto importante è anche il quesito sui limiti agli abusi della custodia cautelare: con il sì, resterebbe in vigore la carcerazione preventiva per chi commette i reati più gravi, ma si abolirebbe la possibilità di procedere alla privazione della libertà in ragione di una possibile “reiterazione del medesimo reato”. Secondo i proponenti infatti “questa è la motivazione che viene utilizzata più di frequente per disporre la custodia cautelare, ma molto spesso senza che questo rischio esista veramente”. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, in effetti, nel 2017 le sovraffollate carceri italiane erano occupate per il 34,3 per cento da persone ancora in attesa di giudizio.
#Osservatorio al carcere di Regina Coeli. I detenuti sono 920 per 615 posti. 400 hanno una condanna definitiva, per loro dovrebbe prospettarsi un percorso fatto di attività che questo carcere non garantisce minimamente. Alcune sezioni sono fatiscenti e in condizioni inaccettabili pic.twitter.com/6szGfDdbid
— AssociazioneAntigone (@AntigoneOnlus) June 8, 2022
Le ragioni del “no”. I dati sono inoppugnabili anche per chi è contrario al quesito: il ricorso alla custodia cautelare è effettivamente frequente. Tuttavia, secondo l’ex magistrato Domenico Gallo, “il quesito non interviene sui possibili abusi della custodia cautelare, bensì opera una drastica riduzione del campo di applicazione complessivo anche di altre misure cautelari, coercitive e interdittive. Esclusi i delitti di mafia e quelli commessi con l’uso delle armi, l’effetto sarebbe quello di precludere la possibilità di applicare, nei confronti delle persone imputate di gravi reati, misure cautelari di alcun tipo, non solo la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, ma anche l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso del coniuge violento), oppure il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di atti persecutori), così come non sarebbero più possibili le misure interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali (nel caso delle società finanziarie che truffano gli investitori)”.
La legge Severino
Infine, per quanto riguarda il quesito sull’abrogazione della legge Severino, in vigore dal 2012 e dal nome dell’allora ministra della Giustizia, con il sì viene abrogato il decreto e si cancella così l’automatismo che prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali in caso di condanna superiore ai due anni di reclusione: si restituisce ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici.
La Casta vuole abrogare la Severino e riportare in Parlamento i condannati https://t.co/Rxt9J8MsH8
Le ragioni del “no”. Tutti sono d’accordo nel constatare come la legge Severino contenga una forte criticità, nella parte in cui prevede che gli amministratori locali possano essere sospesi dalla carica anche nel caso di condanna non definitiva, di primo o secondo grado. Per quanto riguarda invece le sospensioni per condanne in via definitiva, i sostenitori del “no” ricordano come anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, in occasione della sentenza del 2021 sul ricorso presentato da Giancarlo Galan, decaduto da parlamentare in seguito a una condanna a 2 anni e 10 mesi di reclusione, abbia stabilito la legittimità del provvedimento. E soprattutto, chi sostiene la legge Severino ricorda l’articolo 54 della Costituzione, secondo cui “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Soprattutto, il referendum non prevede l’abrogazione della sola norma legata all’incandidabilità, ma la cancellazione della legge Severino nella sua totalità. Ovvero di un provvedimento corposo, che prevede, tra le altre cose, misure di prevenzione della corruzione, la tutela dei whistleblowers, l’istituzione presso ogni prefettura di una lista dei fornitori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa o ancora introduce nell’ordinamento il reato di traffico di influenze illecite.
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