
Dall’Unione europea al Regno Unito, passando per il Canada, crescono le misure diplomatiche contro Israele. Che però va avanti con il genocidio a Gaza.
La Sierra Leone è uno degli stati africani più esposti al rischio di carestie e calamità naturali. Anche a causa della deforestazione, fenomeno che l’Occidente sembra voler ignorare.
Kamalo è un piccolo agglomerato urbano sulla strada che collega Makeni, capitale della regione di Bombali, a Kamakwie, capitale del distretto di Karene, estremo nord della Sierra Leone, a pochi chilometri dal confine con la Guinea. La cittadina conta una manciata di case d’argilla e baracche di lamiera che dal ciglio della strada si dileguano nel mangheto, lasciando la savana a piccoli commercianti in sella a vecchie moto che arrancano sotto il peso di grandi ceste di frutta, a giovanissimi mandriani scottati dal sole, a mendicanti, reduci di guerra, migranti.
Intorno alle 2 del mattino, un roboante chiasso di motori in avvicinamento interrompe la quiete notturna e, poco dopo, una carovana di bilici e grandi autocarri cassonati fa capolino dall’oscurità per attraversare Kamalo e proseguire verso le grandi città, prima Makeni, poi la capitale Freetown. Sui cassoni dei mezzi in movimento si scorgono esili figure dal volto coperto, rannicchiate nell’ombra, vigili come animali notturni. Sotto di loro, distesa per tutta la lunghezza dei rimorchi e coperta da grandi teli in pvc, si nasconde la vera ricchezza del popolo sierraleonese: il legno della foresta. Nessuno degli abitanti sembra avvertire il fracasso della carovana in transito, nessuno si premura di controllare chi o cosa abbia interrotto il sonno della piccola cittadina. In cinque minuti è tutto finito.
La Sierra Leone ha uno dei più alti tassi di deforestazione al mondo, secondo l’Environmental performance index 2024, elaborato dalla Yale University e dalla Columbia University in collaborazione con il Forum economico mondiale e il Joint research centre della Commissione europea. E il Global Forest Watch, piattaforma che monitora le foreste di tutto il Pianeta in tempo reale, riferisce che, dall’inizio del secolo, il Paese ha perso più del 35 per cento della sua copertura forestale totale e il 14 per cento delle proprie foreste pluviali, preziosissimi serbatoi di biodiversità e componenti chiave nei processi di regolazione climatica.
La deforestazione è una piaga che sembra insanabile, una pratica estrattiva già tradotta, per le piccole comunità rurali, nella sostanziale inaccessibilità all’acqua, risorsa strettamente connessa con la foresta, e ai semi, che in molte zone del Paese rappresentano una vera e propria moneta di scambio, un insostituibile fonte di sostentamento. Nonostante il giovane popolo sierraleonese abbia da poco iniziato ad acquisire una profonda consapevolezza circa l’importanza della gestione delle proprie materie prime, storico motivo di efferate contese e guerre civili, le istituzioni faticano ancora a mettere in pratica un piano d’azione che preveda un sistema di controllo capillare, cosa che fino ad ora è stata impossibile da attuare a causa di fenomeni quali la mancanza di infrastrutture e di personale governativo, la corruzione e la sempre più preoccupante irreperibilità di carburante. Per queste ragioni, negli ultimi anni gli ufficiali governativi non sono riusciti ad assolvere al loro compito di monitorare e controllare le dinamiche produttive e mercantili, lasciando i villaggi agricoli dell’entroterra alla mercè di speculatori e landlords, i grandi proprietari terrieri, e facilitando le compagnie di deforestazione che, così, hanno potuto agire indisturbate aggirando le leggi che impongono un’adeguata e proporzionale opera di piantumazione a fronte dell’estrazione di legname.
“In questi anni, il nostro lavoro è stato messo a dura prova dalle condizioni di miseria e instabilità socio-politica che ci siamo trovati ad affrontare dal 2002, al termine della guerra civile”, racconta Dauda Larry Koroma, operatore del Ministero dell’agricoltura e della silvicoltura con il preciso mandato di intrattenere relazioni con piccoli e grandi contadini nel distretto di Karene. “Come ufficiali del Ministero abbiamo la responsabilità di controllare le attività agricole e di proteggere le foreste, attività di fronte alle quali ci sentiamo spesso impotenti e che siamo quasi costretti a trascurare per la mancanza di risorse. In un contesto del genere è facile che si creino dei vuoti giuridici e governativi in cui l’illegalità può prosperare senza trovare ostacoli. Camminando per i chiefdom delle regioni interne, aree governate secondo un sistema tribale che compongono i distretti, è facile riscontrare come la deforestazione sia una pratica molto diffusa e totalmente fuori controllo. I grandi farmer, intesi come i detentori del sistema agricolo su larga scala, hanno abbattuto la foresta primaria e secondaria senza aspettare i consueti tempi di ricrescita, convinti di poter trarre larghi profitti in breve tempo e ignari del fatto di star causando danni irreversibili riscontrabili solo sul lungo periodo. La divisione forestale del Ministero è molto occupata a gestire questo fenomeno e a tutelare le foreste comunitarie, fondamentali per la sopravvivenza dei villaggi rurali, mentre il governo sta provando a potenziare il sistema legislativo con l’aiuto dei leader delle comunità.”
Purtroppo, però, nella tradizione agricola locale sono molto radicate tecniche come lo slash-and-burn, pratica che prevede di bruciare larga parte delle foreste per farne terreno da coltivare. Questo fenomeno, affiancato a sistemi di coltura su turnazione, fa sì che grandi aree forestali vengono bruciate a mesi alterni, compromettendo irrimediabilmente la fertilità del suolo e il benessere di tutta la regione.
“Ovviamente, a causa del continuo aumento demografico, i tempi di riposo del terreno, utile alla rigenerazione dello stesso, si restringono sempre più, rompendo l’equilibrio rigenerativo di cui la foresta ha bisogno per mantenersi intatta. Negli ultimi due anni stiamo cercando di mettere in piedi un programma di riforestazione comunitaria, andando nelle singole contee e acquisendo pezzi di terra per poi ridarli alle comunità in buona salute, ma i risultati di questi progetti è difficile constatarli nel breve periodo. A questi problemi c’è da aggiungere anche quello della deforestazione massiva, che vede tra i principali attori protagonisti i mercanti di legname stranieri, soprattutto cinesi, taiwanesi e vietnamiti, disposti a distruggere intere aree di foresta di mangrovia, essenziale per la sopravvivenza dell’ecosistema, per raccogliere le specie che hanno più mercato all’estero. Insomma, le sfide che ci troviamo ad affrontare sono tante e tutte di vitale importanza”.
Tra le case che si affacciano sull’unica strada sterrata che attraversa la savana in direzione del confine nord del Paese, accatastati alla bell’e meglio in modo da sottrarli alla vista di ispettori e ufficiali governativi, tronchi di ogni dimensione giacciono in attesa di essere trasportati a Freetown. Le piccole comunità di contadini custodiscono il legname in attesa che trafficanti liberiani, ghanesi o ivoriani arrivino in serata, lo carichino sui loro automezzi e lo trasportino fino alla capitale guidando nelle ore notturne per evitare i check point della polizia o per poter corrompere i funzionari lontani da sguardi indiscreti.
Come viene raccontato nei villaggi della zona, fino a pochi anni fa i mercanti di legname cinesi si spingevano volentieri fino alle aree forestali più remote della Sierra Leone, trattando l’acquisto di legname direttamente con le comunità locali. Oggi, invece, preferiscono delegare le attività di estrazione e trasporto a trafficanti africani, risparmiando sul costo del carburante e della forza lavoro. Paesi come il Ghana, in rapida ascesa da un punto di vista economico, forniscono squadre di lavoratori abbastanza equipaggiate per portare a termine le attività in tempi brevi e a costi che per le compagnie cinesi risultano irrisori. Ovviamente, i villaggi agricoli che da secoli animano la vita della foresta sierraleonese sono disposti a vendere gran parte di essa a prezzi stracciati per far fronte all’insicurezza alimentare e alle condizioni di vita misere in cui si trovano a causa dell’isolamento e dei cambiamenti climatici che, lentamente, stanno provocando una sostanziale riduzione delle piogge a favore della stagione secca. Attuando queste dinamiche, i commercianti stranieri si assicurano il controllo di tutta la filiera, dall’estrazione alla fornitura passando per il trasporto della materia prima, traendo il massimo del profitto possibile.
Da non sottovalutare anche i vantaggi legati alle circostanze climatiche e alla posizione strategica dei Paesi del Golfo di Guinea, dai quali è facile esportare larghe quantità di risorse naturali estratte dall’entroterra afro-occidentale. Un caso emblematico ci viene fornito dalla Russia che, negli anni Ottanta, ha intuito il potenziale delle colture in contesti tropicali e ha iniziato a piantumare in loco semi già largamente diffusi in Europa, come il tabacco, alterando profondamente il sistema agro-forestale della costa. Questo sistema è stato attuato anche per molte altre specie di piante già dal primo colonialismo, contribuendo ad aggravare l’integrità delle foreste, diffusamente sacrificate per far spazio alle coltivazioni europee. Con lo scoppio della guerra civile, nel 1991, le potenze occidentali hanno pian piano abbandonato la Sierra Leone, lasciando alle popolazioni indigene il duro compito di gestire coltivazioni non autoctone con i pochi mezzi sopravvissuti al conflitto.
“A tutto questo si aggiunge il grande problema del carburante, ormai quasi impossibile da reperire in grandi quantità e a prezzi accessibili”, spiega Fatmata G. Sillah, District agricultural chief officer presso il distretto di Karene. “Per alimentare le loro numerose miniere, la Guinea compra grandissime quantità di carburante qui da noi, nelle zone di confine, compromettendone sensibilmente il mercato. Basti pensare che alla fine del 2024 la benzina in Sierra Leone è arrivata a costare il triplo di quanto costa in Nigeria. Questo si ripercuote sulle attività del nostro Governo, che non riesce a fornire i mezzi necessari per svolgere controlli capillari in tutto il Paese, e sulla vita delle comunità agricole, costrette a bruciare sempre più legna per alimentare i villaggi. Così, la deforestazione è sempre più lontana dall’essere fermata. Secondo un recente rapporto fornitoci dall’Onu, dal 1975 al 2018 la Sierra Leone ha perso circa il 40 per cento delle sue foreste. L’attuale Governo, eletto nel giugno del 2023, ha subito messo in agenda un rafforzamento del Ministero dell’ambiente e l’assunzione di un numero consistente di nuovi ufficiali ministeriali, ma persiste un problema che, come molti altri, affonda le radici nelle conseguenze della guerra civile: dopo il conflitto, nell’ottica di reintegrare i combattenti nella società, lo Stato ha assunto un numero enorme di dipendenti pubblici, che oggi raggiungono l’ottanta per cento di tutta la forza lavoro del Paese. Non potendo, però, far fronte a una spesa così alta, non sempre il Governo riesce a garantire una retribuzione costante e sufficiente, così da spingere molti lavoratori a cercare altre fonti di sostentamento, spesso illecite, come la corruzione. Tutto questo rappresenta un assist perfetto per i trafficanti di legname. Oggi, la vita nell’entroterra sierraleonese è scandita dall’illegalità e nessuno ha il coraggio di fare niente: chi denuncia queste pratiche subisce gravissime ripercussioni, arrivando anche a rischiare la vita”.
Beautiful country, hard life: sono queste le parole che usano i giovani sierraleonesi per descrivere il loro Paese. Molti di loro, soprattutto chi vive nelle aree rurali dell’entroterra, non riuscendo a trovare le giuste opportunità lavorative si lasciano trascinare nel mondo del commercio illegale di legname, con la promessa di soldi facili con i quali poter garantire una vita dignitosa alle loro famiglie. “Il mercato del legno genera più di 40 milioni di dollari di entrate ogni anno, introiti necessari allo sviluppo dell’economia della Sierra Leone”, afferma Peter Aiah Ansu, Segretario generale della Timber association nel distretto di Karene. “Per questo motivo non possiamo permetterci che la deforestazione illegale proliferi o che il settore cada sotto il controllo di compagnie straniere che, sistematicamente, superano la soglia di estrazione distruggendo il territorio e favorendo calamità naturali come la terribile frana che ha colpito Freetown nell’agosto del 2017 causando la morte di 1.141 persone. Gli agglomerati boschivi che un tempo circondavano le nostre città stanno pian piano scomparendo e i versanti delle colline stanno cedendo sotto i colpi di attività edilizie sfrenate condotte da speculatori con la complicità di funzionari statali corrotti,” prosegue.
L’illegalità lavora contro di noi che cerchiamo di regolamentare il mercato in modo che a trarne i benefici sia tutta la popolazione. La foresta pluviale per noi è vita, e ce la stanno portando via
Sebbene la strategia delle grandi compagnie straniere, soprattutto cinesi, negli ultimi anni sia cambiata in seguito a una legge del Governo sierraleonese che impone che il legno sia processato in loco così da favorire l’aumento dell’occupazione, la deforestazione non sembra in procinto di rallentare. “Il popolo sierraleonese conosce bene le conseguenze dell’abbattimento massivo di alberi”, continua Ansu, “ma solo di recente si è deciso di organizzarsi a livello associativo per risolvere un problema che lo Stato non è in grado di gestire. Nel nostro piccolo, abbiamo già piantato più di cinquemila alberi negli ultimi due anni e stiamo cercando di coinvolgere tutte le realtà locali del Paese, associative e para-governative, nel seguire il nostro esempio. È necessario, però, condurre parallelamente attività diffuse di sensibilizzazione sull’importanza di pratiche come il replanting e la pericolosità di abitudini largamente diffuse nei villaggi tribali, come lo slash-and-burn. La popolazione deve capire che la foresta protegge le comunità più fragili dalle calamità e dalle piogge, oltre a mantenere il suolo fertile, mentre il Governo, con il supporto del tessuto associativo, deve prendere il controllo della situazione prima che sia troppo tardi. Ma c’è un altro importante attore che deve assumersi l’importante responsabilità di rimediare agli errori fatti in passato: sto parlando della comunità internazionale, dell’insieme di tutti quegli Stati che per anni hanno tratto enormi profitti dal commercio delle nostre materie prime. Al contrario, potenze mondiali come la Cina sbarcano a Freetown con la sola intenzione di gestire da lì il traffico di legname che si articola in tutto il Paese arrivando a coprire anche le zone più remote. Il prezzo che pagano qui è di gran lunga inferiore rispetto al costo di mercato, ma a loro è permesso tutto, perché hanno le risorse economiche per eludere le prassi burocratiche in accordo con le istituzioni locali. Il problema è che le imposte su deforestazione e attività estrattive che paghiamo noi sierraleonesi servono ai distretti per finanziare opere pubbliche, infrastrutture, educazione e sanità territoriale. Bypassando queste pratiche, le compagnie straniere, di fatto, sottraggono denaro che altrimenti andrebbe speso per migliorare le condizioni di vita del nostro popolo.
‘Ma almeno i cinesi ci fanno le strade’, sento dire spesso dai miei concittadini. Certo, ma a che prezzo? I tratti di strada che aziende come la China Railway Seventh Group hanno costruito per collegare le principali città della Sierra Leone servono anche a loro per facilitare il transito di grandi automezzi, non lo fanno per restituirci parte del loro enorme guadagno. Per loro non valgono le regole che vengono applicate a noi, e questo vale anche per le specie arboree per le quali, in teoria, è severamente vietato il disboscamento. Infine, la comunità internazionale è a conoscenza del fatto che esportiamo molto più legname di quanto dovremmo e che l’Occidente ne importa più di quanto gli è consentito. Per questo motivo, dobbiamo pensare di più a livello globale e dobbiamo renderci conto che sono i Paesi come la Sierra Leone i primi a pagare le conseguenze dell’estrattivismo selvaggio”.
Il passato difficile e travagliato di uno Stato che soffre un sistemico assoggettamento da parte di nazioni straniere, incide molto sulle sue capacità di affrontare le grandi sfide che il mondo contemporaneo gli pone davanti. E se la deforestazione è già una calamità che ogni giorno si abbatte sulla Sierra Leone, sarà il fenomeno globale strutturale ad essa strettamente collegato a minacciare la sua popolazione nei prossimi decenni. Stiamo parlando, ovviamente, della crisi ambientale e climatica, emergenza che le istituzioni sierraleonesi sembrano voler affrontare con grande consapevolezza.
“Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la salvaguardia della salute e la protezione dell’ambiente sono due argomenti saldamente collegati”, dichiara Abdul Sannoh, responsabile dell’Undp, il Dipartimento sviluppo delle Nazioni unite, presso Freetown. “Il tasso di diffusione di molte delle attuali malattie è correlato allo stato di salute della biosfera e, nel nostro caso, delle foreste. Non solo, la distruzione degli habitat naturali provoca lo spostamento della fauna locale che minaccia, così, le aree rurali, vitali per l’economia della Sierra Leone. Per noi questo è molto chiaro, ma c’è bisogno di una drastica inversione di rotta a livello globale per contrastare l’emergenza che si sta abbattendo sulle nostre vite. I Paesi più poveri del mondo soffrono le scellerate politiche economiche promosse dalla società occidentale. Neanche i Paesi africani in via di sviluppo hanno aree industriali talmente grandi da essere capaci di esercitare una forza così impattante come fanno le compagnie del “Nord del mondo” tramite la produzione massiva. È vero, noi abbiamo le risorse, ma non le capacità tecniche per sfruttarle in modo così aggressivo da distruggere il territorio. I nostri pescatori locali non impattano come le compagnie cinesi, che rastrellano aree marine immense ogni giorno, e quando i nostri agricoltori tagliano un albero non provocano lo stesso effetto che le aziende occidentali determinano abbattendo un’intera foresta.”
Noi abbiamo i minerali, i diamanti e l’oro, ma le macchine che servono per estrarli in quantità a tal punto ingenti da inquinare e devastare il corso dei fiumi e i loro sbocchi sul mare vengono dall’estero. Questi sono tutti motivi per cui le responsabilità della distruzione del nostro ecosistema andrebbe ripartita con gran parte del mondo.
Dunque, uno degli strumenti più efficaci per combattere disastri naturali, eventi catastrofici, carestie come quelle che hanno tragicamente investito la Sierra Leone negli ultimi vent’anni, sembra essere proprio un apparato legislativo e istituzionale davvero in grado di limitare i danni all’ecosistema. “Bisogna dare la possibilità alle nazioni africane di reclamare le loro terre, gestirle in autonomia e mitigare, così, gli effetti dei cambiamenti climatici”, esclama Sannoh. “Abbiamo bisogno di governi solidi che sappiano stringere patti alla pari con l’Occidente e che reclamino il denaro che l’Occidente ha accumulato nei decenni sfruttando le risorse africane. Com’è possibile che la Sierra Leone non abba i soldi sufficienti a sostenersi economicamente se il primo diamante in queste zone è stato scoperto nel 1906? Semplice, abbiamo svenduto il nostro territorio e le sue risorse al primo offerente, succubi di un ricatto impostoci con la forza. Inoltre, abbiamo bisogno di leggi forti e regole per la protezione dell’uomo e dell’ambiente. Ricordiamoci che la Sierra Leone è attualmente riconosciuto come il terzo Paese al mondo più vulnerabile ed esposto agli effetti dei cambiamenti climatici. Stiamo parlando di una vera e propria minaccia esistenziale che compromette il futuro di un giovane popolo e di una terra bellissima”.
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